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di Stefania Parmeggiani

La Repubblica, 6 gennaio 2023

Garlasco è tornata in prima serata. Così altre cittadine teatro di crimini. Ma l’invasione mediatica innesca scenari imprevisti, anche economici. Come spiega lo scrittore Piergiorgio Pulixi. Un anno nerissimo. O meglio, ad alto consumo di cronaca nera. Nel 2022 molti vecchi delitti sono tornati sotto i riflettori: una docuserie su Yara Gambirasio (e, ora, la nuova nuova indagine per depistaggio sul Dna di Massimo Bossetti in cui è coinvolta la pm del caso Letizia Ruggeri), un’altra serie in preparazione da Avetrana sull’omicidio di Sarah Scazzi, un’ondata di servizi su Erba, quando gli avvocati di Rosa e Olindo hanno annunciato di volere presentare istanza di revisione del processo (“Io e Rosa siamo stati incastrati. Si doveva approfondire la pista dello spaccio” ha dichiarato Olindo Romano dal carcere) e anche su Garlasco dopo che Alberto Stasi, ad agosto, a quindici anni dall’omicidio dell’ex fidanzata Chiara Poggi, ha ribadito a favore di telecamere la sua innocenza.

Di questi delitti sappiamo tutto, o almeno così crediamo perché da tempo ascoltiamo le dichiarazioni di avvocati, criminologi e testimoni più o meno attendibili. Ma alla fine, di cosa ci parlano veramente? Delle vittime e dei loro assassini o della nostra attrazione morbosa per la cronaca nera? E soprattutto, quando i delitti vengono trasformati in reality show del dolore, che ripercussioni ci sono sulle cittadine divenute teatro del crimine?

A riflettere su queste domande è Piergiorgio Pulixi, autore di noir che ha ambientato “La settima luna”, il suo ultimo romanzo con protagonista l’investigatore Vito Strega, tra la Sardegna e le terre paludose del Ticino. Pura fiction? Non proprio perché se tutto è inventato, dalla trama alle vittime, di vero ci sono Garlasco e i suoi fantasmi.

Pulixi, perché coinvolgere in un thriller la città dove un omicidio è stato realmente commesso?

“Al di là del genere, della trama e dei personaggi, cerco sempre di inoculare nei miei romanzi un virus di realtà, un’analisi e una critica sociale. In questo caso volevo raccontare il fenomeno dell’industria necrofila dello spettacolo”.

Ovvero?

“Quando avvengono dei delitti in Italia, soprattutto nelle piccole province - penso a Cogne, Erba, Garlasco, Perugia e così via… - i media, soprattutto televisivi, danno vita a un assedio quasi militare. Le troupe stazionano fuori dalle caserme, dai tribunali, dalle case delle vittime e inizia lo choc che se va bene si protrae per mesi e se va male addirittura per anni. Ma cosa accade dopo? Cosa accade a una città che è stata invasa mediaticamente quando le telecamere si spengono? Come convivono gli abitanti con l’aura del delitto, con i fantasmi, i pregiudizi, l’anima improvvisamente oscura di una cittadina che fino a quel momento era stata sonnolenta, quasi noiosa? E poi volevo raccontare anche un altro aspetto, brutto ma reale”.

Dica...

“I casi mediatici innescano un’economia parallela, soprattutto nel settore dell’ospitalità. Ci sono bar, ristoranti, alberghi che hanno impulso da una improvvisa notorietà del luogo, ma quando questi omicidi perdono di attrazione l’economia collassa. E a quel punto le organizzazioni criminali - in particolare in Lombardia, nella zona della Lomellina, l’ndrangheta - vanno a caccia di questi esercizi commerciali in difficoltà, li rilevano, iniettano tanta liquidità e li utilizzano come delle lavatrici di denaro sporco”.

È successo a Garlasco?

“È testimoniato da verità processuali incontrovertibili”.

Non è un rischio concreto ogni volta che una realtà diventa marginale rispetto al mercato?

“Certo, ma a me interessava il doppio meccanismo: dal crimine al crimine, un percorso circolare, quasi junghiano”.

Quello che accaduto a Garlasco sarà successo anche in altri luoghi. Perché allora ha scelto per il suo romanzo proprio Garlasco?

“Perché ha fatto scuola: l’industria dello spettacolo, il fast food della violenza servita in prima serata ha raggiunto lo stato dell’arte perfetto. Si è creata una drammaturgia con i plastici del luogo del delitto, con i vari esperti che facevano il processo in tv prima ancora che le indagini fossero chiuse”.

Con quali conseguenze?

“Meccanismi del genere sono pericolosi dal punto di vista della democrazia. Se una trasmissione televisiva insiste continuamente su un delitto e ne propina una tesi, lo spettatore ne sarà condizionato. E se poi lo chiamano come giudice popolare in Corte d’Assise? Riuscirà a spogliarsi dei pregiudizi? Poi c’è un’altra questione che su Garlasco ha avuto un peso determinante: quando tu ti getti con tanta prepotenza su un caso, costringi gli inquirenti a ballare al ritmo della televisione e spesso la fretta induce all’errore”.

Quando ha avuto per la prima volta sentore che stesse accadendo qualcosa del genere?

“Con il delitto di Cogne. C’era una casa, una vittima e una presunta assassina. Io ero un ragazzo, osservavo quel macabro spettacolo televisivo, attratto come tutti dal delitto della camera chiusa, ma iniziai a pormi delle domande: dov’era il rispetto per le vittime? Non c’era più garbo, tutto veniva utilizzato per fare più audience e lo si avvertiva nitidamente”.

Si era perso quello che nel giornalismo è una condizione indispensabile, la continenza...

“Una delle cose più trash è che a mettere in scena questi spettacoli spesso non sono giornalisti, ma conduttori televisivi, persone che si mettono a revisionare casi senza competenza e senza deontologia”.

Ha scelto Garlasco perché era un caso da manuale, ma una volta sul posto cosa ha trovato?

“La normalità. Come se le persone volessero dimenticare. Poi, improvvisamente, un mese prima che il libro uscisse, si è tornati a parlare di Garlasco per uno speciale delle Jene, l’intervista a Stasi. E allora di nuovo, il pesce più grande ha mangiato il pesce più piccolo. In questo caso il pesce più grande è il delitto che si è mangiato letteralmente una città”.

Non tutti cercano la normalità, c’è anche chi fa a gara per rilasciare interviste...

“È un gioco di ruolo, ognuno cerca una parte da recitare. Non tutti però sono attori e non tutti vogliono fare parte di questa tragedia o commedia del dolore. Un evento così dirompente attira personaggi di qualsiasi genere anche all’interno delle forze dell’ordine. C’è chi vorrebbe lavorare a bocce ferme, senza pressioni, e chi invece ama le telecamere, l’attenzione”.

Come fa uno scrittore a non ricadere nello stesso meccanismo nel momento in cui sceglie di mettere al centro della scena Garlasco?

“Raccontando le dinamiche. Ho scelto due personaggi, un magistrato e una giornalista televisiva, che rappresentano il mondo della legge e quello dei media. Come lavorano sul nuovo delitto? I media cominciano a chiamare questa ragazza l’angelo di Garlasco e quindi a soffiare su tizzoni che sembravano spenti e in realtà erano accesi. Il pubblico magistero sfrutta il caso per avere più popolarità”.

Dunque, mettendo in scena i vizi umani?

“Esattamente. Sono convinto che il delitto sia il sassolino che si lancia su una superficie di acqua, i cerchi concentrici che si dipanano sono comunque delittuosi, anche se sono perpetrati da altri, nel mio romanzo dai media e da questo pm che fa indagini un po’ spericolate. Poi ci sono i protagonisti come Vito Strega e gli altri della squadra che provano empatia nei confronti della vittima e sono mossi dal desiderio di giustizia. Ho quindi cercato di rappresentare tutta la commedia umana nel bene e nel male”.

Quali sono gli elementi che trasformano un delitto in un eterno giallo, oggetto di crime serie in televisione ma anche su YouTube?

“Intanto il profilo della vittima: più è la ragazza della porta accanto e ha una immagine illibata, più assomiglia a Laura Palmer di Twin Peaks meglio è, così scatta subito l’empatia. Poi il rapporto sentimentale o di sangue tra vittima e potenziale assassino perché, se questo c’è, parla direttamente alle viscere del pubblico. C’è anche un aspetto morboso per cui più un delitto è cruento meglio è per la drammaturgia. E infine il mistero: se è molto complesso non ci faccio solo una puntata, ma una serie di podcast”.

Quanto conta che il delitto avvenga in provincia?

“Molto. Nella grande metropoli il delitto viene presto oscurato da altri problemi e poi le piccole cittadine hanno qualcosa di idilliaco, come i villaggi di Agatha Cristie. Quando l’ordine viene sovvertito, si scatenano suspence e paura. Se non ti puoi fidare neppure del tuo vicino di casa, di chi ti puoi fidare?”.

Nel romanzo c’è un altro virus di realtà: l’inquinamento ambientale.

“Per uno scrittore è quasi un obbligo morale parlare di inquinamento e cambiamenti climatici. Stiamo andando tutti incontro a una grande tragedia, il vero noir è questo mentre i delitti mediatici sono armi di distrazione di massa. Garlasco, Cogne, Perugia, Erba inoculano la paura del mostro, che in realtà è statisticamente irrilevante e distolgono l’attenzione da problemi ben più reali come la corruzione, le infiltrazioni criminali, i reati ambientali e il cambiamento climatico”.