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di Domenico Quirico

La Stampa, 4 novembre 2023

I palestinesi di Gaza, ma anche somali, sudanesi, siriani, saharawi, afghani, haitiani, l’elenco è lungo. Vivono in attesa dei camion dell’Onu, non “producono”, aspettano: fino all’esplosione della violenza. Volete una definizione, semplice, svelta, per stringere in pugno subito tutto? Eccola: i popoli mendicanti sono quelli che vivono ai margini. Sono quelli che fanno storia come i malati fanno la malattia. Sì, sopravvivono davanti ai Muri, vecchi trucchi costruiti alla fine di ogni guerra, in strisce di sabbia e di roccia, luoghi forse un tempo ameni, dove c’erano alberi e acqua, chissà, forse ma chi ne ha memoria? E oggi c’è polvere o fango a seconda delle stagioni, o magari solo polvere e fango perché perfino le stagioni con i loro labili segni sono fuggite via. I popoli mendicanti sono quelli che sono stati ridotti nel confine più drastico che esista, quello della assoluta inutilità. In terre incognite ricavate a ridosso di frontiere che sfumano nel Nulla.

Non basta? volete qualcosa di ancor più forte, per capire che parliamo di genti con cui fare della sociologia, usare concetti astratti ha un gusto un po’, come dire, feroce? I popoli mendicanti sono composti da coloro a cui è immorale porre la domanda: che cosa hai mangiato oggi? La domanda giusta è: hai mangiato oggi? Perché i popoli mendicati vivono della carità internazionale, per trovarli basta sfogliare i faldoni delle agenzie umanitarie delle Nazioni unite o delle fondazioni caritative laiche o jihadiste. Loro però sono fuori dallo spazio e dal tempo, non illudetevi di spendere utilmente la vostra buona volontà, appartengono solo a sé stessi e sono solo dentro di sé.

Attenzione: addentratevi con prudenza in queste righe. Questo articolo non è che lo specchio di un fallimento. Sì, perché i popoli mendicanti sono l’istantanea della nostra Storia-disastro, affollata da milioni di uomini. Gli ultimi a irrompervi: i palestinesi rannicchiati nell’angolo meridionale della Striscia di Gaza, tra due Muri con diverse bandiere. Le loro baracche resteranno lì dove, forse, sfumerà la risacca della guerra; o semplicemente, come ipotizza qualcuno, scivoleranno dall’altra parte, nelle bibliche sabbie del Sinai. Chissà. Una volta tanto non voglio fare il ripasso: se nel 1948 avessero scritto meglio le risoluzioni per la nascita di Israele..., se i trionfi dei famosi Sei giorni nel 1967 fossero stati meno arroganti... se Arafat non fosse stato una “padre della patria” così discutibile e corrotto... se Hamas non fosse Hamas se... Voglio raccontare solo i popoli mendicanti, quelli di Gaza come sono ora, durante questa guerra, e come ahimè! temo saranno.

Le città dei popoli mendicanti sono queste distese senza fine di baracche, di tende, di capanne, legno, plastica, cartone, latta; nascono in un attimo, sono abili con le mani i popoli mendicanti uomini donne bambini a tirar su questi luoghi dove incredibilmente gli uomini vivono e che hanno per me, anche se li incontro da anni, sempre un che di astratto e di assurdo. E di tremendo. Piatte, flessibili, di una materia un po’ molle, l’occhio vi affonda, crescono quando le guerre che restano infinite, inguaribili, diventano per un po’ guerre raffreddate da manuale di storia.

Elenchiamo, volete? Somali, Karen, saheliani di molte inutili bandiere, i nigeriani del nord , sudanesi, siriani, Saharawi, afghani, haitiani… chiedo venia, so che dimentico. Qualcuno ne è uscito, pochi. Tanti vi entrano ed escono da decenni, come i palestinesi.

La condanna dei popoli mendicanti è che non “producono”. Come farebbero confinati in questi luoghi eternamente provvisori? La guerra anche quando non c’è più, quando non alzeranno continuamente lo sguardo al cielo per paura di sentire il rumore degli aerei, sta sempre intorno, è appiccicata addosso. E poi non ci sono energia elettrica sicura, acqua strade… neppure il più spregiudicato dei capitalisti di rapina avrebbe vantaggi a venir qui a delocalizzare salari da fame per mettere insieme pezzi di plastica o cucire scarpe. Per quello ci sono i popoli poveri, la miseria è un dato certo. Dunque, si aspetta. Si aspetta che tutto anche qui diventi permanente solido definitivo, e potrà raccattare i suoi “operai” magari bambini.

Il momento chiave della vita dei popoli mendicanti è la distribuzione: del cibo che altro! Il centro delle comunità umane è la piazza, la chiesa o la moschea, un monumento che ricapitola la storia del luogo e degli abitanti. Per i popoli mendicanti è lo spiazzo dove si fermano i camion con i sacchi di farina o le scatole con le razioni di cibo e di acqua potabile. Il cibo, come se fosse nella sporcizia di quella vita l’unica cosa pura sulla terra.

I palestinesi di Gaza nei giorni scorsi, nell’infuriare dei bombardamenti, hanno assaltato i depositi dove erano immagazzinate le scorte alimentari dalle Nazioni unite. A poco a poco quando saranno raccolti nella parte della Striscia che la guerra concederà loro, questo non accadrà più. I popoli mendicanti imparano in fretta ad essere disciplinati. Dipendono.

E questo obbliga ad essere miti. Ogni giorno, all’ora stabilita, si metteranno in fila per ricevere la razione prevista. I funzionari Onu o della mezzaluna rossa o delle sigle del Qatar e della Arabia saudita, spunteranno via via dagli elenchi i nomi di chi ha ritirato la sua parte giornaliera. Ai bambini resterà il compito, come a Dadab, in Mozambico, sulle rive del lago Ciad, ad Aleppo di raccogliere le briciole, sì le briciole, quello che è caduto a terra dai sacchi o dimenticato nei rimorchi dei camion.

Giorno dopo giorno anno dopo anno quello sarà il momento chiave della vita. il resto sono le donne sedute sugli usci delle capanne, i bambini che fanno rotolare latte vuote o palloni bucati, nel fumo di fuochi accesi all’aperto tra due pietre dove cuoce il cibo della carità internazionale, mescolato alla polvere che il vento solleva come una nebbia mossa e biancastra da terra.

A poco a poco, come sempre, la città dei mendicanti si organizzerà, acquisterà un ordine, una sua struttura, già: una forma. Compaiono nomi di strade e di incroci, qualcuno più ingegnoso monta piccoli negozi e traffici; spuntano le antenne paraboliche, sulle pareti delle baracche compaiono slogan minacce simboli bandiere. Arrivano le notizie dal mondo, ronzano come mosche sul tavolo. E con loro nuovi barlumi di rabbia rivoluzionaria.

Mentre in remote sale congressi, luminose e accoglienti, signori in cravatta e segretarie in tailleur, i bottegai della luccicante Misericordia senza frontiere, montano bilanci, fatturati e richieste urgenti! Di fondi, i ribelli iniziano a rimpolpare i miti fondativi, a ricordare e a raccontare cosa è accaduto. E quelle storie diventeranno miti. Dapprima parleranno in tono sommesso nelle lunghe ore in attesa dell’arrivo dei camion, poi i vecchi capi spariranno con la loro rassegnazione e prudenza. Alla vita ideale, sognata, lontana dalla angustia del presente con cui i popoli mendicanti hanno riempito i primi tempi, si sostituiranno le sconfinate possibilità della vendetta: “Siete pronti? Andiamo ad abbattere quel muro”.