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di Agnese Moro

La Stampa, 9 maggio 2023

Oggi la Giornata della memoria delle vittime del terrorismo. Ascoltare è stato utile a capire il dramma di una generazione. La bella intervista di Donatella Stasio a Manlio Milani - presidente dell’Associazione dei familiari dei caduti di Piazza della Loggia, e instancabile animatore della Casa della Memoria di Brescia - pubblicata ieri su queste stesse pagine, ha introdotto di fatto tra i temi della Giornata della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi che si celebra oggi al Quirinale quello della giustizia riparativa.

Ovvero di una giustizia che non si fermi, come quella dei tribunali, all’accertamento delle responsabilità penali, individui e fermi i colpevoli, commini delle sanzioni, cose tutte fondamentali, ma che accompagni anche quel complesso cammino di ritorno alla pienezza della partecipazione alla vita, personale e collettiva, di tutti coloro che, nei modi più diversi, sono stati toccati e cambiati per sempre da comportamenti di offesa alla dignità e alla integrità delle persone.

Si tratta delle vittime dirette, dei loro familiari, amici, colleghi, comunità (dalle più piccole all’intera nazione). Ma si tratta anche di coloro che quelle azioni le hanno compiute, e magari poi comprese profondamente, criticate, rifiutate, ma che ne portano comunque il peso personale e lo stigma che troppo spesso neanche l’aver scontato la pena elimina. Così come gli anni trascorsi dai fatti non fanno passare le sofferenze e i sentimenti terribili che provano coloro che - come me - hanno perso in quegli anni una persona cara. Sono, per gli uni e per gli altri, inferni che si ripropongono quotidianamente, legandoci a un passato che, come Sisifo, trasportiamo ogni giorno senza potercene mai liberare né trasformare in un ricordo disarmato né realmente in memoria.

La giustizia riparativa l’ho vissuta e la vivo da molto tempo, in una esperienza intensa di dialogo che vede impegnate persone - e tra loro Manlio Milani - che come me hanno perso in quella stagione di sangue qualcuno che amavano, alcuni di coloro che 45 anni fa hanno concorso all’uccisione di mio padre Aldo, e altri che, a sinistra e a destra, scelsero la lotta armata. La giustizia riparativa è una cosa molto piccola, all’apparenza, ma molto grande perché funziona.

È fatta di un luogo dove si va volontariamente, liberamente, perché ci si vuole andare e da cui si esce, se lo si vuole, in qualunque momento. È un luogo dove ci sono semplici regole tra cui rispetto reciproco e riservatezza. È un luogo in cui, con l’aiuto di mediatori preparati e “equiprossimi”, si incontrano persone che hanno fatto del male con persone che quel male lo hanno ricevuto. Magari accompagnati da una piccola o da una grande comunità. È un luogo in cui ci si guarda in faccia; in cui si può dire, spiegare, rimproverare, e in cui si può ascoltare ciò che gli altri hanno da dire.

In questo dialogo serrato, che certamente non cambia ciò che è stato, si cambia noi. Gli uni e gli altri. Per me ha significato riuscire a dare parole al mio dolore e poter dire quelle parole proprio a coloro che dovevano ascoltarle; e a mia volta ascoltare loro parlare delle loro scelte di allora, dei percorsi dopo, e vedere le vite che ricrescono buone. Ha significato poter rimproverare loro per cose di cui la giustizia penale non si interessa, ma che possono distruggere come le pallottole. E poter spiegare, senza acrimonia, chi era la persona che mi era stata tolta. È stato incontrare il loro dolore, che è terribile, e quello delle loro famiglie incolpevoli.

È stato poter vedere che l’umanità non va perduta, e può sempre essere risvegliata. E scoprire che il male non è onnipotente e nemmeno una forza estranea all’uomo, ma un semplice fatto umano, che è dentro ognuno di noi. Per loro l’incontro ha significato scoprirsi non solo colpevoli di… (un reato), ma anche responsabili verso di noi, noi figli, a cui è stato tolto tanto, e verso di loro, i nostri cari, individui concreti, reali non funzioni, divise, simboli. Fonte e ricettori di affetti. Amati. Per tutti noi, credo, sia stato importante riconoscerci reciprocamente. Come persone. Reali a nostra volta, degne di rispetto e non come personaggi positivi o negativi di una astratta storia di cui chiunque si sente libero di inventare momenti di vita, sentimenti, motivazioni. Certo di saperne più di noi della nostra vita, di quello che siamo e che siamo stati. Parlandone in un libro, in un film o chiacchierando in treno o al bar con gli amici.

Ascoltarli e ascoltarci è stato difficile e importante; in quei racconti c’è il dramma di una generazione - la prima nata libera dopo il fascismo -, l’irresponsabilità dei predicatori, la forza della propaganda, la cecità dei partiti popolari, il rifiuto dell’ascolto, il desiderio - identico - di giustizia sociale, la differenza delle scelte, le solitudini diverse, ma simili del dopo. E da loro tante indicazioni preziose di politica carceraria. E la scoperta per tutti della trasmissione ad altre generazioni dei frutti avvelenati dei nostri silenzi incapaci di raccontare.

Oggi la giustizia riparativa è parte integrante del nostro ordinamento con la riforma che porta il nome di Marta Cartabia che fortemente l’ha voluta. Ma mi sa che viene da lontano. Penso alla scelta fatta dalla nostra Costituzione di definire la giustizia come un percorso di ritorno - vedi la finalità rieducativa delle pene dell’articolo 27 - che trova nella giustizia riparativa una forma di attuazione per tutti, vittime, responsabili, comunità. Una strada a portata di mano. Per tornare a una vita piena e nostra. Se solo lo vogliamo.