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di Errico Novi

Il Dubbio, 7 marzo 2024

Se c’è un luogo carico di contraddizioni, nel panorama giudiziario italiano, è la Procura nazionale Antimafia. È un ufficio molto gerarchizzato. Ha una sede importante e ben presidiata, ma ha funzioni atipiche. Di coordinamento ma non propriamente inquirenti. Eppure è un punto d’arrivo per la carriera dei grandi pm. Non solo. È un trampolino di lancio non per ulteriori approdi magistratuali, ma verso le alte sfere della politica.

Pietro Grasso è stato eletto (col Pd) prima in Parlamento e poi presidente del Senato, Franco Roberti è parlamentare europeo (sempre con i dem), Federico Cafiero de Raho è ora un deputato 5 Stelle. Insomma, dopo si vola. Ma della Superprocura non si era mai parlato tanto come per il recentissimo presunto dossieraggio. È cioè un ufficio finito negli highlitghs dell’informazione per un teorico scandalo. Pure grave, se accertato. E forse c’è da meravigliarsi fino a un certo punto, nel momento in cui una delle voci più autorevoli nel dibattito sulla giustizia, Sabino Casese, due giorni è arrivata a chiedersi se “questa struttura debba ancora rimanere in vita o se invece non bastino gli strumenti ordinari”. Esultanza nel centrodestra, che vede in via Giulia una fucina di notabili arruolati nelle schiere nemiche.

Ma è vero che la Dna è superflua? Che va abolita? E soprattutto: è possibile che la creatura di Giovanni Falcone debba finire come una sorta di Cnel della giustizia, un ente inutile che magari sarà soppresso alla prossima riforma istituzionale? In realtà la Direzione nazionale Antimafia e antiterrorismo, secondo la definizione acquisita nel 2015, ha un ruolo non così marginale: coordina, pur senza sovrintendervi, le inchieste in materia di criminalità organizzata e, appunto, di eversione armata, nel senso che acquisisce le risultanze investigative delle singole direzioni distrettuali, cioè delle 26 maggiori Procure italiane, e fa in modo che quelle indagini, e quegli investigatori, si “parlino”.

Dire che un coordinamento simile è inutile, in tempi in cui la mafia si è finanziarizzata ed emancipata dal legame col singolo territorio, sarebbe ingeneroso. Ma è indiscutibile che la Procura nazionale soffra di una sproporzione fra il proprio prestigio (con le relative ambizioni che sollecita) e il suo effettivo rilievo nella geografia giudiziaria. E insomma, quella del procuratore Antimafia è una carica tanto ambita quanto limitata nei suoi poteri. E, paradosso nel paradosso, i limiti in questione sono legati anche al potere rivendicato dai vertici delle 26 grandi Procure distrettuali: in altre parole, il capo dei pm di Roma, o di Napoli o di Milano, fa ontologicamente fatica a riconoscere un’autorità sovraordinata. Anche se la Dna non dà quasi mai “ordini”, il suo stesso ruolo di crocevia delle informazioni, è indebolito dalla “gelosia” con cui i capi delle singole Procure territoriali difendono il loro potere.

E fosse l’unico, di problema. È ovviamente sotto gli occhi di tutti il cruccio con cui si trova ora a fare i conti Giovanni Melillo, l’attuale capo della Dna. Va detto che, come ha ben ricordato ieri il Foglio, proprio Melillo ha messo mano all’intera struttura gerarchica impegnata sugli archivi, sulla sicurezza e sugli apparati informatici di via Giulia. Ha prima esonerato dai precedenti incarichi non solo il finanziere Pasquale Striano e il sostituto Antonio Laudati, che aveva la competenza sulle segnalazioni di Bankitalia (ora sono entrambi indagati per i presunti dossieraggi), ma ha anche sottratto all’allora procuratore aggiunto Giovanni Russo (ora a capo del Dap), e avocato a se stesso, il coordinamento di tutte le banche dati della Dna. Melillo è non solo uno degli inquirenti più apprezzati dall’avvocatura ma è anche tra i pochi magistrati italiani dotati di riconosciute capacità manageriali nel campo delle nuove tecnologie.

Da capo di Gabinetto a via Arenula, con Andrea Orlando guardasigilli, ha seguito in prima persona le questioni legate ai server che custodiscono le intercettazioni. Si tratta insomma di una figura dall’indiscussa competenza. Ora spetta a lui l’ingrato compito di non lasciar evaporare il prestigio e l’autorevolezza della Procura nazionale. Dovrà compiere sforzi enormi, nel rapporto con i colleghi e nella gestione del caso “dossieraggi”, per limitare i danni e poi ricostruire dalle macerie. Ma può darsi che la sua missione si riveli impossibile E che tra gelosie ed equivoci di base, la grande creatura di Falcone finisca davvero derubricata a ente inutile, anzi pericoloso.