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di Luigi Travaglia*

Il Manifesto, 30 dicembre 2023

Il dibattito sulla detenzione lo seguiamo anche da qui, dalla tv. Hanno vinto le idee di vendetta e punizione perché soddisfano meglio gli istinti della piazza. Quando poco prima di mezzanotte rientro in carcere dopo una giornata di lavoro, in cella le luci sono già spente. L’unico chiarore che mi aiuta nel buio a evitare di inciampare e svegliare gli altri arriva dalla televisione che qualcuno si è dimenticato di spegnere la voce dei conduttori tv viene fuori dalle celle e raggiunge i corridoi, affianca i miei passi al secondo piano, evidentemente i miei compagni non sono gli unici a seguire l’attualità. La televisione è lo strumento principale attraverso cui i detenuti seguono le notizie, anche i dibattiti sul carcere.

Nei programmi televisivi si parla poco della Costituzione Italiana, che ha imposto ai suoi rappresentanti di agire nell’interesse della collettività e di prevedere per i detenuti condannati un trattamento il meno degradante possibile e tendente alla rieducazione, mirante al reinserimento sociale. Se di questi principi possiamo ancora parlare è per lo più grazie al coraggio e alla volontà di educatori, mediatori, volontari, agenti e tante altre colonne portanti del sistema, che ogni giorno combattono e risignificano l’idea di pena e punizione; dall’interno e dall’esterno delle prigioni. Oggi, nonostante gli obblighi vincolanti, i governi si ostinano a non investire quanto dovrebbero per gli istituti penitenziari. Tale gravissima mancanza si trasforma in un abbandono consapevole di principi etici e costituzionali: nelle carceri si spalanca un’immensa voragine spazio temporale dove le istituzioni non hanno più memoria dei loro principi fondativi.

All’interno della maggior parte degli istituti gli individui vengono più o meno abbandonati per tanto tempo quanto è giusto che sia e la presa in carico dello Stato si rivela carente sotto ogni punto vista. La privazione della libertà perde ogni possibilità di riscatto perché è stata scambiata come luogo sicuro dove parcheggiare le persone. Il lavoro che nel corso degli anni è stato fatto dagli istituti di reclusione come il carcere di Bollate a Milano è la prova che ripensare il carcere è una possibilità concreta, che ripaga sotto ogni punto di vista, tagliando di netto la recidiva. Implementare modelli più efficienti e funzionali, per il bene del paese, con nuove risorse, deve essere la strada. Non ce ne sono altre. Il principio della rieducazione deve essere reale e non la foglia di fico ormai lacera dietro la quale nascondersi, riformando tutto per far sì che nulla si riformi veramente. In carcere non succede nulla, si aspetta.

Individuando ed isolando lo Stato sottrae il carnefice al linciaggio della folla. Il meccanismo dell’occhio per occhio dente per dente, tanto efficace quanto arcaico, in linea di principio non è ammesso dalle istituzioni che proprio per eludere questo funzionamento si arrogano il diritto contrattuale di imprigionare e rieducare. La giustizia non ragiona come gli individui ma come un organo di un’istituzione sovrana. Il principio della vendetta dovrebbe essere abolito o quantomeno addomesticato in virtù degli interventi da mettere in atto, dal e nel carcere. Ne hanno parlato Patrizio Gonnella e Mauro Palma sul manifesto negli ultimi due giorni.

Tra la miriade di motivi per i quali questi interventi non riescono ad essere realizzati, uno tra i tanti è che intorno al discorso carcere si è finito per accettare, come dato di fatto, che al reinserimento sia stato sostituito l’abbandono. È stata favorita l’idea della vendetta e della punizione, che sicuramente soddisfa maggiormente gli istinti della piazza. Tra questi elementi, si innesta un corto circuito violento la cui scossa calcifica lo stato delle cose. Il carcere nella sostanza, è una vendetta, pensata non da un’istituzione sovrana che agisce nel bene dei cittadini, ma da un insieme di individui teoricamente rispondenti solo ai principi costituzionali ma praticamente influenzati dalle vicissitudini e dagli umori elettorali. La politica viola così platealmente i suoi doveri.

La giustizia, che esce ed entra dai tribunali, sembra oscillare tra impunità, esemplarità e spettacolarizzazione: è morbosa la spettacolarizzazione delle traduzioni in carcere, dei luoghi del delitto, dei volti degli imputati. La strumentalizzazione del rapporto tra giustizia e carcere strizza l’occhio agli istinti giustizialisti della folla.

Sotto questa luce l’esemplarità delle condanne in Italia, rafforzata dai nuovi decreti sicurezza, è la risposta più ovvia e più inutile alla richiesta di prevenzione. In un certo senso la recidiva sembra essere sistemica, un circolo vizioso volutamente ignorato perché in fin dei conti offre sempre nuovo materiale da sacrificare sugli altari elettorali dai quali si ergono nuovi paradigmi securitari all’insegna della criminalizzazione della povertà. Fino a che non riconosceremo l’ipocrisia dei governi, dello sberleffo alla Costituzione, la repressione resterà lo strumento principe per portare ordine. Dividendo con brutalità i figli sani della società da quelli malati.

*Luigi Travaglia è un nome di fantasia dietro il quale si nasconde uno dei 60.045 detenuti nelle carceri italiane.