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di Damiano Aliprandi

Il Dubbio, 29 dicembre 2022

Il sistema giudiziario sembra aver imboccato il superamento della detenzione come risposta alla devianza giovanile. Lo dimostrano i dati del rapporto “Ragazzi dentro” di Antigone. “Il Beccaria non sembra più l’istituto penale minorile modello che era stato in passato”. Così scrisse in tempi non sospetti l’associazione Antigone, mettendo già in guardia le autorità competenti sulla situazione tesa e precaria dell’istituto di Milano. Che ora è da giorni al centro della cronaca per l’evasione di Natale da parte dei sette ragazzi. Quattro di loro sono stati già ripresi. Ma la punizione già è arrivata nei confronti di undici giovani che il giorno di Natale si sono ribellati contro un permesso natalizio prima concesso e poi vietato, dando fuoco a materassi e suppellettili: sono stati trasferiti in sei carceri diverse del Sud Italia. Due di loro sono finiti a Catania, e gli altri sono stati distribuiti tra gli istituti minorili di Bari, Catanzaro, Potenza, Palermo e Caltanissetta. Almeno un giovane sarebbe finito nel carcere per gli adulti. Una punizione che fa regredire il senso della pena. Molti di loro sono più che ventenni, i cosiddetti “giovani adulti”, quelli che hanno commesso il reato da minorenni. Adulti nella teoria. L’adolescenza di oggi si è dilatata e va oltre i vent’anni. Tra i sette ragazzi evasi, invece, si contano due 18enni, un 19enne e quattro 17enni: quattro sono italiani, due di origine nordafricana, uno è nato in Ecuador.

Nel processo di transizione verso l’età adulta entrano in gioco e interagiscono tra loro fattori di natura biologica, psicologica e sociale. Un momento difficile, e diventa ancora più problematico per chi vive in contesti ambientali non favorevoli. La cosiddetta “devianza” giovanile entra in gioco in questo momento. Non a caso il carcere minorile non dovrebbe avere più senso, e dal Partito radicale all’associazione Antigone ne chiedono il suo superamento. Lo stesso ex cappellano del carcere minorile di Milano Beccaria, don Gino Rigoldi, ha spiegato che quei ragazzi evasi non dovevano stare reclusi a Natale e neppure prima. Di fatto, è lo stesso sistema giudiziario che sembra aver imboccato la strada del superamento della detenzione come strumento di intervento contro la delinquenza dei giovani. Gli ultimi dati del rapporto “Ragazzi dentro” di Antigone ci aiutano a capirlo: in Italia sono appena 316 i minori e i giovani adulti (fino a 25 anni) detenuti in 17 strutture. Di questi, 8 sono ragazze, 140 stranieri, 131 davvero “minori”, 128 hanno dai 18 ai 20 anni e 57 dai 21 ai 24. I detenuti, nel complesso, risultano appena il 2,3 per cento del totale dei 13.611 giovani che, a diverso titolo, hanno a che fare con la giustizia penale minorile. Altri (oltre 1.500) vengono accolti in una delle 637 comunità che garantiscono una risposta diversa dal carcere, e oltre tremila usufruiscono della “messa alla prova” con cui il giudice ferma il processo e stabilisce un periodo in cui il giovane deve comportarsi bene e impegnarsi in attività di volontariato. Alla fine, se la valutazione è positiva, il reato viene del tutto cancellato.

La “messa alla prova” rappresenta ormai circa il 20 per cento delle decisioni prese in procedimenti che riguardano i giovani. Anche il numero di 316 detenuti è frutto di un continuo calo che inizia e rimane costante dai primi anni Duemila. Prima del Covid i detenuti erano 375. Gli altri giovani arrestati usufruiscono spesso di sospensioni condizionali della pena o la scontano ai domiciliari o vengono assolti. Ma l’allarme sociale della criminalità giovanile esiste? Se da una parte le bande giovanili, o baby gang, sono una realtà in aumento in Italia, originata prevalentemente da situazioni di disagio familiare o sociale e da mancata integrazione piuttosto che da legami con la criminalità, dall’altra i numeri ci dicono che i reati commessi dai giovani sono in continuo e netto calo: nel 2016 furono arrestati 34.366 minorenni; nel 2020 se ne contarono 26.271. Una diminuzione che non deriva (se non in parte) dal fattore Covid. Già nel 2019, infatti, Antigone ha rivelato che gli arresti erano scesi del 15% rispetto al 2016, stabilizzandosi sotto quota trentamila. L’evasione dal carcere minorile Beccaria di Milano rischia però di creare risposte sbagliate. Da una parte c’è il guardasigilli Nordio che ha promesso l’invio di più educatori e di un direttore in pianta stabile, osservando che bisogna focalizzarsi sulla prevenzione; dall’altra il sottosegretario Andrea Ostellari ha colto l’occasione per rilanciare la vecchia proposta di limitare a 21 anni (al posto dei 25 attuali) l’età dei detenuti che possono scontare la pena negli Ipm, gli Istituti penali minorili. Una proposta, quest’ultima, che costituirebbe un passo indietro. I reati commessi da minorenni non posso essere equiparati a quelli commessi in età adulta. Non è un caso che il fenomeno delle baby gang viene studiato attraverso un parametro diverso rispetto alla criminalità degli adulti. Ci viene in aiuto un recente studio dal nome “Le gang giovanili in Italia”, una mappatura a livello nazionale del fenomeno elaborata da Transcrime, il centro di ricerca interuniversitario sulla criminalità transnazionale delle università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Alma Mater Studiorum di Bologna e di Perugia. Si apprende così che il “modello” più diffuso sui territori è quello caratterizzato dalla mancanza di organizzazione verticistica, composto in maggioranza da ragazzi minorenni italiani tra i 15 e i 17 anni, che infieriscono su coetanei. Più diffuso nel centro-Nord è invece un terzo tipo di banda giovanile che si ispira a gang criminali estere, composto prevalentemente da ragazzi stranieri, di prima o seconda generazione, non integrati a livello sociale. L’ultimo tipo di baby gang mappato è quello diffuso nelle aree urbane, caratterizzato da una struttura definita e dalla gravità dei reati commessi, pur non avendo legami con la criminalità.

La risposta delle istituzioni denota la mancanza a oggi di un approccio specifico, mentre il quadro complessivo del fenomeno evidenzia, secondo il prefetto Vittorio Rizzi - direttore centrale della Polizia criminale che, tramite il Servizio analisi criminale, ha già dedicato diversi report alla devianza minorile - la necessità di un approccio integrato alla devianza di cui le baby- gang sono espressione, che tenga conto di molteplici aspetti: familiari, sociali, psicopatologici. “Un’efficace strategia di prevenzione della devianza giovanile - ha affermato il prefetto Rizzi nella prefazione allo studio - richiede la promozione, da parte di tutte le istituzioni coinvolte, di iniziative didattiche, sociali, culturali, sportive e religiose nonché di educazione alla legalità rivolte ai minori”, facendo rete per orientare i giovani verso altre “forme di impegno che esercitino una forza attrattiva, disinnescando contestualmente l’avvio di percorsi criminogeni”.

In sostanza ci vuole un approccio preventivo, non le solite risposte securitarie che non fanno altro che aggravare il disagio. In aiuto ci viene anche un documento del Tribunale per i minorenni di Milano, in cui viene sottolineato che l’attività di prevenzione e ri- educazione resta cruciale per contrastare il fenomeno, con particolare attenzione a ciò che succede nel mondo del web. Si osserva, a questo proposito, che l’istituzione scolastica è un’agenzia privilegiata, in ragione della sua idoneità a formare le nuove generazioni alla cittadinanza digitale e a promuovere un corretto esercizio di diritti e doveri nello spazio di azione e di espressione di Internet. In sostanza serve una stretta sinergia fra scuole e famiglie e grande attenzione ad intercettare i primi segnali di disagio, intervenendo il più tempestivamente possibile. In questo, il ministro Nordio, è stato chiaro: ci vuole la creazione di un tavolo interministeriale che coinvolga tutte le istituzioni e il terzo settore, per continuare ad osservare in modo costante il fenomeno della devianza giovanile e individuare soluzioni efficaci anche in termini di prevenzione. Sempre che il resto del governo non si lasci sedurre da quell’unica, solita parola d’ordine: inasprire le punizioni.