di Claudio Tadicini
Corriere del Mezzogiorno, 20 settembre 2019
Offendere qualcuno definendolo "animale" costituisce reato e va perseguito penalmente. A maggior ragione se il destinatario dell'appellativo in questione è un fanciullo. E sia pure se quest'ultimo si sia reso responsabile di un'aggressione ai danni di un'altra bambina dopo averci bisticciato. Lo ha stabilito nelle scorse settimane la quinta sezione della Corte di Cassazione.
La stessa Corte di Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza di un giudice di pace di Lecce, con la quale un condomino salentino - S.G. le sue iniziali, accusato di diffamazione - era stato assolto per insussistenza del fatto, perché la parola incriminata (seppure considerata dal giudice inappropriata od eccessiva) non era stata ritenuta dallo stesso spregiativa della reputazione del minorenne al quale era riferita. Di diverso avviso sono stati gli ermellini che, invece, hanno accolto il ricorso contro la sentenza di assoluzione emessa dal giudice di pace leccese, valutando come offensiva la disumanizzazione della vittima.
La vicenda riguarda un messaggio pubblicato dall'imputato nella chat condominiale di Whatsapp, in cui l'uomo, rivolgendosi al genitore del bambino e agli altri vicini di casa, per informarli circa l'aggressione subita dalla figlia, scriveva: "Volevo solo far notare al proprietario dell'animale ciò che è stato procurato al volto di mia figlia. Domani al rientro del turno lavorativo prenderò le dovute precauzioni".
I giudici della Corte di Cassazione (presidente Vessichelli, relatore Morosini), infatti, hanno rilevato un immediato contenuto offensivo espresso dalla parola "animale" riferita ad un bambino, nei confronti del quale sarebbe opportuno adottare maggiori cautele espressive proprio perché minore, considerando inoltre che alcune espressioni "presentano ex se carattere insultante", nonostante la recente giurisprudenza di legittimità abbia mostrato alcune aperture verso un linguaggio più diretto e "disinvolto".
Motivando l'accoglimento del ricorso presentato dalla procura leccese, i magistrati romani sottolineano difatti che "sono obiettivamente ingiuriose quelle espressioni con le quali si disumanizza la vittima, assimilandola a cose o animali. Paragonare un bambino ad un animale, inteso addirittura come "oggetto" visto che il padre ne viene definito "proprietario", è certamente locuzione che, per quanto possa essersi degradato il codice comunicativo e scaduto il livello espressivo soprattutto sui social media, conserva intatta la sua valenza offensiva". Cancellata la sentenza, gli atti sono stati quindi rinviati ad un altro giudice di pace di Lecce, che dovrà adesso emettere un nuovo pronunciamento tenendo conto di quanto stabilito dall'organo supremo della giustizia italiana e del suo "avviso ai litiganti": dando dell'"animale" a qualcuno adesso si infrange la legge.