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di Simona Musco

Il Dubbio, 22 dicembre 2022

Il primo cittadino di Bari rilancia l’appello: “Regole più chiare per chi amministra”. “È successo anche a me: sono stato indagato per concorso in tentato abuso d’ufficio. E ho pensato al suicidio. Ho pensato: adesso mi butto al mare con l’automobile e non sento più niente, non soffre più mia moglie, non soffrono più le mie figlie, non soffrono più le persone che mi conoscono e soprattutto non soffro più io. Per fortuna non l’ho fatto”. Antonio Decaro, sindaco di Bari e presidente di Anci, nel cerchio infuocato del processo mediatico ci è passato come tanti altri.

A lui è capitato circa dieci anni fa, quando da deputato del Pd si ritrovò indagato per la presunta raccomandazione di un cugino con l’allora assessore regionale Alberto Tedesco per fargli superare un concorso indetto dall’Arpa Puglia. L’accusa aveva chiesto un anno e 4 mesi, al termine di un processo celebrato con il rito abbreviato. Ma il gup optò per l’assoluzione - poi confermata in appello - scelta che per il politico rappresentò la fine di un “incubo”. Un incubo tanto grande da spingerlo a pensare di porre fine alla sua vita. Come capitato ad altri, prima e dopo di lui, alcuni dei quali non sono riusciti a fermarsi un attimo prima: un anno, ad esempio, fa a togliersi la vita fu Angelo Burzi, fondatore di Forza Italia in Piemonte, che si uccise dopo la condanna nel processo “rimborsopoli” dopo essersi sempre proclamato innocente. Decaro ha ricordato la propria vicenda martedì scorso, durante il convegno “Magistratura e stampa. Democrazia, informazione, giurisdizione”, davanti, tra gli altri, al sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto e al presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia.

Un’occasione, ha spiegato il primo cittadino, per rilanciare l’appello dell’Anci affinché la politica affronti il tema della responsabilità dei sindaci. “Avendo chiesto il rito abbreviato, dopo quattro anni, se non si fosse alzato l’avvocato Michele Laforgia a chiedere dei tempi certi, io non mi sarei candidato a fare il sindaco di Bari. L’ho presa male, perché mi ritenevo una brava persona e mi sono ritrovato indagato e su tutti i giornali e i telegiornali d’Italia per una questione molto limitata”, ha spiegato. Nonostante le accuse a suo carico fossero relativamente leggere, infatti, il suo nome finì in una maxi operazione sulla sanità nella quale c’era di tutto: dalla corruzione alla concussione, passando per la prostituzione.

Un “calderone” che fagocitò anche Decaro, facendolo diventare un presunto “impresentabile” per la politica, nonostante la presunzione di innocenza. Quel tempo, per fortuna, è passato. Ma il problema rimane ancora irrisolto, tant’è che la stessa presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, rispondendo all’appello dell’Anci ha garantito ai sindaci un intervento legislativo per definire meglio le norme e circoscrivere le responsabilità. “Lo dichiaro per l’ennesima volta - ha sottolineato Decaro - non stiamo chiedendo né l’impunità né l’immunità, non stiamo chiedendo di abrogare dei reati per i sindaci e gli amministratori locali, non sarebbe giusto e sono convinto, da sindaco, che se un sindaco sbaglia deve pagare anche più degli altri. Il tema è: qual è la responsabilità del sindaco? Non ti puoi ritrovare indagato per qualunque cosa succeda nella tua città. Io credo che non esista un reato di ruolo. Chiediamo di definire i contorni delle norme”.

Anche perché i dati statistici sono tremendi: in percentuale, il 93 per cento degli amministratori locali indagati per abuso d’ufficio è stato assolto o archiviato. “È giusto che i magistrati indaghino se c’è una norma che lo prevede e che il giornalista dia notizia di ciò - ha aggiunto - ma questo meccanismo, alla fine, ha portato molte persone, molti amministratori ad abbandonare il proprio ruolo. Ci sono accuse finite sui giornali e ci sono tanti amministratori che hanno abbandonato con dolore una missione che gli era stata assegnata dai cittadini. Ho conosciuto tanti che non si sono ricandidati, tanti che si sono dimessi perché sottoposti ad un’indagine che poi ha portato all’archiviazione, tanti che si sono ammalati”.

Sisto ha assicurato l’intenzione del Governo “di mettere ordine” alla materia. “C’è la necessità - ha detto a margine del convegno di intervenire sul reato di abuso di ufficio. Siamo di fronte a cinquemila iscrizioni sul registro degli indagati in un anno, con sole 27 sentenze di condanna. Si valuterà se cancellare la norma o intervenire per rendere più tipiche alcune forme di abuso di ufficio, in modo da evitare che questa norma incida negativamente sulla fisiologia dell’attività amministrativa”.

Contemporaneamente il ministro Carlo Nordio ha annunciato l’intenzione di riformare le intercettazioni e le regole per la loro pubblicazione, “per evitare la corsa al gossip”, quella che dà vita al processo mediatico, “molto spesso - ha sottolineato Sisto - più punitivo del processo svolto nelle aule di tribunale”. Il viceministro ha richiamato l’articolo 8 del Codice deontologico dei giornalisti, che impone il rispetto del principio della presunzione di innocenza. Che però spesso rimane ai margini, in una sorta di “accanimento terapeutico che, in nome dell’articolo 21, diventa, a mio avviso, un eccesso inaccettabile, perché provoca danni e tutto sommato non accontenta la fondamentalità del diritto dell’articolo 21, contemperato dal 15 e dal 27. E allora se ne ha questo ci aggiungiamo la deontologia ha ragione che dice che probabilmente dobbiamo riprendere il tema delle responsabilità”.

L’idea di abolire o modificare il reato di abuso d’ufficio non piace al presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, secondo cui “sembra che si vogliano ridimensionare le capacità investigative proprio nel momento in cui si dovranno gestire i fondi del Pnrr”. Il processo penale, ha affermato il leader del sindacato delle toghe, “tranne casi eccezionali, non è il luogo della segretezza”. E nemmeno le indagini, per le quali il segreto è limitato a “singoli atti”.

Perché “il segreto è contrario alla democrazia e va usato con cautela e in maniera eccezionale. Può servire anche a proteggere diritti fondamentali - ha aggiunto -, però non è una struttura pesante nel processo penale, che deve essere aperto.

Tanto più il fatto ha creato allarme sociale tanto più ci sarà attenzione: è impossibile pensare di creare una paratia intorno al processo per renderlo impermeabile alla legittima curiosità della pubblica opinione che vuol sapere cosa succede”.

Il che non significa violare i segreti investigativi, ma rendere trasparente il potere. Proprio per tale motivo ridimensionare le intercettazioni “è un messaggio politico che continuo a non comprendere, almeno finché non verrà dettagliato”. Parole che hanno suscitato meraviglia in Sisto: “Il segreto, nel nostro codice di rito, nella fase delle indagini è la regola. Questo liberismo dell’Anm mi stupisce, perché non solo non tutela il processo e l’indagato, ma non tutela il cittadino. Il processo penale non è calibrato su magistrati e avvocati, ma sul cittadino”.