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di Marco Cappato*

Il Riformista, 13 maggio 2023

“A chi appartiene la tua vita?”. È la domanda dalla quale partire e alla quale tornare in ogni confronto sull’eutanasia. Ci si può addentrare nella selva terminologica dei metodi per far sopravvivere o per lasciar morire. Ma non si può eludere il nodo di fondo, che impone scelte che si ripercuotono sulla pelle delle persone. Per pazienti in condizioni irreversibili di sofferenza insopportabile, che chiedono lucidamente un aiuto per terminare serenamente la propria vita, lo Stato può scegliere se fornire l’aiuto oppure girare la testa dall’altra parte, lasciando che la tortura prosegua. Lo Stato può scegliere tra l’eutanasia legale, fatta di informazione, prevenzione dei suicidi attraverso il potenziamento dell’assistenza psichiatrica e sociale e della terapia del dolore, oppure l’eutanasia clandestina, degli atti nascosti, a volte “pietosi” ma sempre fuori controllo, e dei suicidi di malati terminali nelle condizioni più terribili.

Il codice penale del fascismo del 1930 è netto: fino a 12 anni di carcere per l’aiuto al suicidio, fino a 15 anni di carcere per l’omicidio del consenziente. Nessuna eccezione è ammessa. Nessuna pietà, né misericordia. La Costituzione del 1948, dopo gli orrori del nazifascismo, rimette sui binari giusti: “nessuno può essere sottoposto a un trattamento sanitario contro la propria volontà”. Resta però largamente inattuata, tanto che, quando il Co-Presidente dell’Associazione Luca Coscioni, Piergiorgio Welby, è stato aiutato a morire nel 2006 col distacco dalla respirazione artificiale sotto sedazione, il medico Mario Riccio è stato prima incriminato e poi prosciolto. Da lì l’autorizzazione alla sospensione delle cure per Eluana Englaro nel 2009, e l’imposizione giudiziaria ad aiutare a morire Walter Piludu, nel 2016.

Nel frattempo, nel 2013 con l’Associazione Luca Coscioni, avevamo depositato la legge di iniziativa popolare per l’eutanasia legale, mai discussa in Parlamento. Perciò avviammo con Mina Welby la disobbedienza civile, accompagnando in Svizzera “Dj Fabo” e Davide Trentini. Proprio durante il processo a mio carico, il Parlamento approvò la legge che recepiva la giurisprudenza e attuava la Costituzione sull’interruzione delle terapie. Su quella base, la Corte costituzionale depenalizzò l’”aiuto al suicidio” a determinate condizioni e portò alla mia assoluzione. La depenalizzazione dell’aiuto a morire realizzata dalla Consulta rimane però sulla carta: in quattro anni, solo Federico Carboni è riuscito ad ottenerlo nel 2022, dopo due anni di battaglia legale di Filomena Gallo e di nuovo grazie al coraggio di Mario Riccio.

Rimanevano - e rimangono - escluse dalla possibilità di essere aiutate a morire le persone che non siano “dipendenti da trattamenti di sostegno vitale” (ad esempio non lo sono i malati terminali di cancro), oppure che non possono autosomministrarsi la sostanza letale (ad esempio le persone totalmente paralizzate). Contro queste discriminazioni residue, raccogliemmo le firme di 1 milione e 250.000 persone per indire un referendum, bloccato dalla Corte costituzionale.

Abbiamo dunque ripreso l’azione nonviolenta, accompagnando altre 4 persone in Svizzera con l’aiuto di altre “disobbedienti”: Felicetta Maltese, Chiara Lalli, Virginia Fiume. Sono ventisette le persone “associate a delinquere” con noi. Nel frattempo, i sondaggi riportano un sempre maggiore sostegno popolare alla legalizzazione, ma le istituzioni sono paralizzate. Per questo, stiamo raccogliendo le firme su leggi di iniziativa popolare regionali che impongano tempi certi e procedure chiare. Anche la legge sul testamento biologico rimane sulla carta, inattuata nella parte che prevede l’obbligo per il Governo e le Regioni di realizzare una campagna informativa. Risultato: nessuno ne sa alcunché, lo 0,5% della popolazione ne ha usufruito. Che la nostra vita appartenga a ciascuno di noi, e che ciascuno di noi abbia bisogno di ogni tipo di aiuto, ma non di imposizione, nel morire come nel vivere, è ormai un fatto che appartiene al vissuto del popolo italiano, senza distinzioni politiche né religiose. Il ceto di potere invece no, non ci è ancora arrivato. Pensano che la gente abbia paura a “parlare di morte”. Sono loro a essere impauriti e a non voler capire che stiamo parlando di vita, cioè di essere liberi fino alla fine.

*Tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni