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di Donatella Stasio

La Stampa, 10 agosto 2023

L’esecutivo, e chi lo rappresenta, fa la faccia feroce per “rassicurare” l’opinione pubblica pur sapendo che è sbagliato e non serve a nulla. Se non a cancellare le garanzie. Ha ragione Carlo Nordio: la realtà è complessa, lo è anche il diritto, e figuriamoci la politica. Quindi, si rassegni chi ancora aspetta di vederlo all’opera come ministro garantista o, al contrario, giustizialista. Non sono né l’uno né l’altro, risponde al collega Francesco Grignetti, che lo ha intervistato su questo giornale. È vero, lui è come il Godot di Beckett, si fa aspettare, e intanto confonde, parla e fa parlare di sé in un modo un po’ monotono e surreale, come del resto si addice ai protagonisti del teatro dell’assurdo. Nessuno sa veramente dove ci porteranno Nordio e il suo governo.

Mentre leggevo l’intervista, di fronte a quel continuo zigzagare del guardasigilli tra rivendicazioni liberali e risposte panpenaliste, tra esigenze garantiste e politiche repressive, mi chiedevo che cosa avrebbe pensato Marcello Gallo, uno dei più grandi penalisti italiani purtroppo scomparso domenica scorsa e ricordato, tra i tanti, dallo stesso Nordio e dal sottosegretario Alfredo Mantovano perché ha formato intere generazioni di giuristi ed è stato un grande maestro del diritto penale. Anche per me. Non dimenticherò mai il suo richiamo ai colleghi giuristi - era il 2014 - ad abbandonare il linguaggio “ellittico” o “esoterico” solitamente frequentato, che non si fa capire - forse non vuole - e dunque non aiuta a formare leggi “prive di sotterfugi”, cioè leggi che “non tollerino interpretazioni tali da condurre dall’assetto liberal-democratico a soluzioni apparentemente innocenti ma sostanzialmente ispirate alla logica dell’autoritarismo”. Che è quanto denunciano, oggi, soprattutto gli avvocati penalisti e la stampa liberale, che in Nordio avevano riposto grandi aspettative ma che ora chiedono al Parlamento di “fermare la legislazione emergenziale”. Inutile, ormai, aspettare Godot.

Al di là delle aspettative, il combinato disposto delle risposte di Nordio e delle sue iniziative politiche concrete purtroppo non rassicura sul fatto che quella logica sia del tutto estranea alla politica penale del governo, che viaggia spesso, troppo spesso, con decreti legge, a dispetto della cultura liberale dichiarata da chi li firma. Tutto è diventato un’emergenza e viene affrontato con insofferenza ai controlli, ai diritti e alle garanzie nonché alla separazione dei poteri, oltre che con un approccio securitario. Con decreto abbiamo visto nascere nuovi reati, alcuni persino universali, e inasprire le pene di molti altri: è accaduto con i rave party, l’omicidio nautico, il traffico di migranti, le violenze al personale scolastico, e ora con l’incendio doloso e colposo. “Un segno di attenzione dello Stato per la repressione di gravissimi fenomeni” spiega il ministro liberale Nordio, sebbene ai lettori dei suoi editoriali abbia per anni ripetuto che “l’errore della destra è pensare di garantire la sicurezza con l’inasprimento delle pene, la creazione di nuovi reati e magari con un sistema carcerario criminogeno come quello che abbiamo”. Insomma, nella migliore tradizione panpenalistica italiana, il governo Meloni, e chi lo rappresenta sul fronte della giustizia, fa la faccia feroce per “rassicurare” l’opinione pubblica pur sapendo che è sbagliato e non serve a nulla. Se non a cancellare le garanzie.

Non è propaganda, assicura il ministro nell’intervista. È, appunto, la “complessità” della vita, del diritto, della politica. L’unica propaganda in cui si riconosce, aggiunge, è la “propaganda fide”, la fede nella certezza del diritto. Questa “fede”, e nient’altro, avrebbe ispirato un’altra norma, per certi versi tossica, dell’ultimo decreto legge, già annunciata da Meloni e Mantovano a luglio, nell’anniversario della strage di via D’Amelio, soprattutto per attutire le polemiche sul Nordio-pensiero in materia di concorso esterno in associazione mafiosa.

Si tratta della norma per “rimediare” a una sentenza dell’anno scorso della prima sezione penale della Cassazione che - discostandosi da un precedente del 2016 delle sezioni unite - delimitava l’ambito della criminalità organizzata ai fini dell’utilizzo delle intercettazioni consentite per i reati di mafia. Un precedente isolato che aveva però allarmato alcune Procure antimafia, in particolare a Milano e a Torino, nonché la Procura nazionale. Il problema avrebbe dovuto essere risolto dalla stessa Cassazione - che secondo l’ordinamento giudiziario ha proprio la funzione di garantire l’uniforme interpretazione del diritto - ma non ce n’è stata l’occasione (questa la tesi del Palazzaccio) o è stato sottovalutato (secondo la tesi del governo). Meloni e Mantovano hanno quindi deciso di intervenire, annunciando un decreto legge di natura interpretativa. Una forzatura poi abbandonata. Si è optato per una norma innovativa, chiarificatrice, che “tipicizza”, spiega Nordio, e che “allontana il rischio di compromettere molti processi” (ma alcuni noti giuristi non ne sono convinti, come Gianluigi Gatta, autore di un articolo dal titolo: “Intercettazioni e criminalità organizzata: quando a voler precisare si finisce per complicare”). Vedremo. Resta comunque la forzatura del decreto legge, che può rappresentare un fastidioso precedente di fronte a future sentenze indigeste politicamente.

Peraltro, da un lato il governo raccoglie le sollecitazioni dei Procuratori antimafia, dall’altro lato le ignora quando si tratta di tutelare i cittadini dalle scorribande della mafia sul terreno della corruzione. Non va in questa direzione, infatti, l’abolizione del reato di abuso d’ufficio, proposta e difesa da Nordio nel suo Ddl di giugno sulla giustizia, contro cui si sono levate più voci, non solo dal fronte antimafia. Grignetti lo ricorda al ministro nel corso dell’intervista ma Nordio “vola alto”, ignorando, o fingendo di ignorare, persino le preoccupazioni consegnate a Meloni dal presidente della Repubblica per una possibile violazione dei trattati internazionali. Il nostro armamentario anticorruzione, assicura il ministro, “è tra i più forniti d’Europa”. Salvo poi aggiungere: alla bisogna, faremo un “intervento additivo” (leggi: un nuovo reato), naturalmente “tipicizzato”, parola che serve a tranquillizzare chi teme colpi di spugna (per esempio su reati come la tortura o il concorso esterno), ma che di fatto può portare ad analogo risultato.

In realtà non sappiamo come finirà sull’abuso d’ufficio, viste anche le diverse posizioni nella maggioranza, con la Lega, in particolare, contraria a soluzioni radicali. Ma c’è da giurare che Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia del Senato - dove il Ddl comincerà in autunno il suo cammino parlamentare - saprà gestire la situazione con la capacità di mediazione dimostrata, ai tempi in cui governava Berlusconi, su provvedimenti altrettanto delicati, come le intercettazioni.

Sono stata una delle tante allieve di Marcello Gallo all’Università di Roma negli anni 70 e ci siamo incontrati di nuovo alla fine degli anni 80 in Parlamento, io giornalista e lui senatore della Dc, autorevole presidente della Commissione bicamerale per i pareri al nuovo Codice di procedura penale, al quale diede sostanzialmente il via libera. Proprio quel Codice Vassalli che ora Nordio dice di voler “riportare alle origini”, con modifiche spot e con la separazione delle carriere. Staremo a vedere, ancora una volta, quale logica ispirerà le annunciate modifiche.

Anche Gallo era favorevole a una separazione tra giudici e pm ma non ne faceva una crociata. Da cattolico, esortava i giuristi a difendere sempre la laicità del diritto, senza sovrapporre alle norme le proprie opinioni personali, e agli statisti raccomandava di rifuggire dall’imposizione di una morale “perché è l’anticamera del totalitarismo”. Una lezione davvero preziosa.