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di Sandro Staiano*

Il Dubbio, 12 settembre 2023

I fatti del Parco Verde a Caivano, e prima la catastrofe di Cutro, e prima ancora la questione del concorso esterno in associazione mafiosa, e, risalendo poco più indietro nel tempo, il disordine dei rave party, e ancora più indietro l’ergastolo ostativo: la risposta (o il rifiuto a rispondere) del decisore politico in ognuno di questi casi conferma che alcuni capisaldi di civiltà giuridica in campo penale, accolti nella Costituzione, sono sospinti fuori orizzonte.

Recedono il principio di legalità in senso sostanziale, la tipicità delle condotte punibili, la proporzionalità e ragionevolezza della pena, la sua funzione rieducativa, il divieto di irrogare, sotto le spoglie della sanzione penale, trattamenti contrari al senso di umanità. Si interviene con le armi dell’emergenza, con decreto-legge, strumento principe in questi casi. Si interviene a ridosso immediato dei fatti, talvolta perfino nel luogo in cui essi si sono compiuti.

Si interviene sotto dettatura delle vittime, delle loro famiglie, delle comunità ferite, raccogliendone la corrente emotiva, con soluzioni di qualità tanto bassa quanto alta la fretta che le sospinge. Si interviene introducendo nuove figure di reato, aumentando le pene in modo da rendere quanto più estesa la carcerazione preventiva, riducendo il campo della non imputabilità. Laddove sarebbe altamente necessario il meditato procedere, la tensione dialettica di un procedimento parlamentare capace di collocare ogni intervento nel sistema, con le sue compatibilità e i suoi equilibri.

In alcuni di questi casi, con difficoltà crescente a farsi ascoltare al cospetto del “popolo” e del suo sdegno, la cultura della Costituzione non è rimasta tuttavia senza voce. E ha ottenuto, nella sede parlamentare della conversione in legge, la rimozione di alcuni degli scostamenti maggiori dalla Costituzione. Un atteggiamento certo difensivo, che nulla può al cospetto della sostituzione della leva penale alle politiche sociali, perequative, dell’immigrazione; però quella cultura dà dimostrazione di perdurante forza vitale.

Ma vale qualcosa di più profondo, che tocca l’essenza stessa della civiltà del diritto, a mettere sotto scacco la cultura della Costituzione in materia penale: ci sono casi in cui le parole, che sarebbe necessario pronunciare per rispondere a un imperativo morale oltre che alle ragioni della scienza giuridica, sono divenute indicibili. È divenuto indicibile lo scostamento dalla Costituzione dell’ergastolo ostativo, con l’attenuazione concessa solo a chi abbia “utilmente collaborato con la giustizia”, non anche a chi non abbia di fatto alcuna collaborazione utile da offrire o non possa collaborare utilmente per non mettere a rischio la propria vita e quella delle persone a lui vicine, pur avendo reciso o comunque non conservando alcun rapporto con le organizzazioni criminali (delle quali circostanze si mette semmai a carico del condannato la prova diabolica). L’indicibilità deriva dalla potenza di un sentimento avverso dominante, nel “popolo” e in suoi autorevoli interpreti, che tende ad annichilire chi avanza, sia pure con molte cautele, le ragioni della funzione rieducativa della pena e della sua umanità.

Alcuni anni fa, al tempo in cui la Corte costituzionale aveva appena pronunciato le prime decisioni sull’ergastolo ostativo, Giorgio Lattanzi, allora Presidente della Corte, narrò in pubblico di avere ricevuto l’epiteto di “disgustoso” a carico dell’organo che rappresentava.

È divenuto indicibile il vincolo inderogabile a istituire e a regolare con la legge figure quali il concorso esterno in associazione mafiosa, non lasciandole, come invece avviene, alla determinazione giurisprudenziale in violazione del principio di legalità sostanziale e della riserva assoluta di legge. Indicibile, perché chi lo designi riceve immediatamente lo stigma della complicità morale con la criminalità mafiosa. Giovanni Fiandaca, che dei princìpi costituzionali in materia penale è da sempre autorevolissimo testimone, ha affermato di recente che una modifica della disciplina legislativa richiederebbe “molta perizia e molta maestria e un livello di competenza tecnica” che oggi non sono disponibili. Sicché meglio è affidarsi alla giurisprudenza (creativa) della Corte di cassazione, capace di equilibrare esigenze di garanzia ed efficacia preventivo-repressiva. Saggissima conclusione. Ma in essa si rivela la tragedia del garantismo penale, il quale non può riaffermare i suoi presupposti, al cospetto di un decisore politico che non filtra né orienta, ma si lascia plasmare sotto l’azione diretta di forze, variamente coinvolte nel processo storico, come vittime, come testimoni di un’idea o di un’esperienza, talvolta eroica, le quali però dovrebbero, proprio in ragione della loro natura, restare estranee alle determinazioni legislative in materia penale, piuttosto che dominarle.

Si potrebbe sostenere - taluno lo sostiene - che la regressione di civiltà giuridica oggi in atto dipenda dal predominare di forze reazionarie, che dunque si tratti di una situazione transitoria, creata dalle destre al potere. Chi lo dice coltiva l’illusione di esser al di fuori dell’attuale crisi della coscienza costituzionale. Ma incorre in una aberrazione cognitiva.

Si deve infatti convenire, ancora, con Norberto Bobbio circa la perdurante validità della irriducibile dicotomia destra-sinistra, intorno alla questione dell’eguaglianza, essendo per la prima la diseguaglianza il principio informatore dei rapporti sociali ed economici e il motore dello sviluppo e del benessere (disegualmente distribuito), per la seconda una intollerabile ingiustizia, che rende impraticabili le libertà e dissolve le democrazie. Questa dicotomia vale a dare conto in modo sufficientemente nitido del modo in cui si articolano i rapporti economici e sociali nel tempo presente. Essa cioè vale a dare conto del mondo reale, delle tensioni di fondo che lo attraversano.

E sarebbe tranquillizzante poter considerare la questione del garantismo penale in una dicotomia di questo genere. Infatti, larghissima parte della destra liberale e neoliberale moderna è orientata in senso avverso all’impiego non adeguatamente limitato della leva penale, non fosse altro perché un eccesso di criminalizzazione contrasterebbe con l’assioma irrinunciabile della capacità di economia e società di raggiungere autonomamente un equilibrio. E la sinistra, a sua volta, è stata storicamente avversa alle politiche di espansione della repressione penale deprivata di garanzie, poiché il diritto penale è stato considerato il più ingiusto e diseguale tra tutti i tipi di comando giuridico.

Ma oggi le forze politiche che competono, comunque narrino la loro storia e comunque rappresentino il loro presente, non sono in quella dicotomia, la cui realtà esse non vedono. Sono, invece, corrose - in misura più o meno intensa, in diverse fasi - dalla tabe del populismo, che riduce l’appartenenza di schieramento a mera apparenza. Il populismo non è proprio di una sola parte e di una sola forza, ma è mentalità diffusa. II populismo rispecchia e non rappresenta, proietta e non seleziona. Rispecchia anche le pulsioni vendicative alla repressione penale. È proprio del legislatore e dei giudici. Per questo il lessico del garantismo penale diventa indicibile. Per questo occorrerà ritrovare le parole per dirlo.

*Presidente Associazione Italiana Costituzionalisti