di Antonio Nastasio
L’Opinione, 10 agosto 2024
Un decreto strillato, ma senza effetti reali e assenza di concretezza. Il recente Dl 92/2024 “Carcere Sicuro”, approvato il 7 agosto alla Camera della Repubblica, doveva rappresentare un primo passo verso la soluzione dei gravi problemi di sovraffollamento, disagi, suicidi di detenuti e di personale di custodia, incluso l’ultimo caso di un agente sul muro di sentinella all’Ucciardone. Tuttavia, è evidente che questo nuovo approccio, oltre che ignorare il reale, ha evitato di proporre soluzione forti capaci di risolvere a patto di avere il coraggio di operare, in quanto avrebbe portato a sfide istituzionali, come la mancanza di una vera attenzione proporre soluzioni innovative e con risparmio economico.
Il pacchetto carceri ha ribadito l’importanza delle misure alternative alla detenzione, già in corso, come la detenzione domiciliare, l’affidamento in prova ai servizi sociali e l’espiazione della pena nelle comunità terapeutiche. Tuttavia, queste misure non hanno mai raggiunto il loro pieno potenziale, principalmente a causa della mancanza di strutture adeguate fuori dal carcere per accogliere i beneficiari, che spesso non dispongono di supporti esterni.
La stessa politica del “non carcere” non ha trovato quel necessario supporto di indipendenza e integrazione con il territorio, piuttosto che con una struttura statale. L’Amministrazione penitenziaria ha preferito affidarsi per le misure alternative all’organizzazione delle carceri per adulti e, successivamente, a quelle per minori, senza mai sviluppare un contesto autonomo che coinvolgesse il territorio e il volontariato qualificato. Nonostante i miei tentativi per anni, con accordi mai ratificati a livello centrale, la situazione è rimasta immutata.
La proposta di appoggiare i detenuti tossicodipendenti presso le comunità l’avanzai già nel 1991. Prevedeva l’utilizzo delle case mandamentali dismesse per ospitare i tossicodipendenti arrestati, con una gestione interna affidata a una comunità e un controllo esterno da parte della polizia penitenziaria. Questo progetto non andò a buon fine a causa del responsabile della comunità. Nel 1999 ribadii la necessità di trovare strutture alternative gestite dal privato sociale in accordo con l’ente locale, utilizzando strutture pubbliche dismesse, come le caserme. Questa proposta, formalizzata nel 2008, non venne attuata, ma dal 2013 è stata ripresa dai vari ministri.
Se queste strutture fossero state utilizzate, molte persone povere o prive di risorse esterne avrebbero potuto scontare la pena in un ambiente più idoneo al reinserimento sociale, con costi inferiori rispetto al carcere, liberando numerosi posti attualmente occupati da persone che non necessitano del carcere ma di supporto territoriale e di inserimento sociale. Oltre a liberare posti in carcere, il costo di gestione e di ristrutturazione di queste strutture sarebbe stato basso. Alte, invece, sono le spese di ristrutturazione necessarie per adibire tali strutture a carceri, in quanto richiedono misure di sicurezza elevate. La proposta di inviare i tossicodipendenti in comunità, se effettuata d’ufficio, presenta delle criticità. Dall’esperienza personale, molti preferiscono restare in carcere, dove l’ozio è più congeniale al loro stato di dipendenza. Se inviati d’ufficio nelle comunità, il rischio di fuga potrebbe essere elevato, con conseguenti recidive e ritorno in carcere, aggravando nuovamente il sistema penitenziario.
I detenuti con malattie mentali, che continuano a ricevere trattamenti terapeutici all’interno del carcere è un’altra criticità. Ospedali dismessi potrebbero invece offrire soluzioni più appropriate, rispettando i principi della legge Basaglia, la quale mira a eliminare le barriere per la guarigione. Se trasformati in strutture adeguate, questi edifici potrebbero facilitare il processo di cura sia per i civili che per i detenuti, evitando che le mura diventino strumenti controproducenti come avviene in un normale ospedale. Mi sembra doveroso formulare una proposta provocatoria: se questa soluzione non era valida per gli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), perché non dovrebbe essere applicabile ai settori del carcere dove sono detenuti i malati di mente, anche se questi spazi detentivi non sono ufficialmente riconosciuti come tali?
Similmente è il trattamento dei detenuti malati terminali. Non poter avere un familiare vicino al momento della morte è una afflizione aggiuntiva inaccettabile e inumana, che contraddice la stessa natura della pena. Inoltre, gli ospedali dismessi potrebbero essere impiegati per ospitare detenuti con problemi di salute non solo mentale, che richiedono cure specialistiche non disponibili totalmente o con fatica all’interno delle carceri o ricorrendo al “ricovero” in ospedali civili con il piantonamento di poliziotti del Corpo della Polizia penitenziaria, con disagio per gli altri ammalati e umiliazione del malato detenuto e i suoi familiari, se autorizzati a fare visita.
Il concetto di territorializzazione della pena - il grande assente - potrebbe permettere di scontare la condanna presso la propria famiglia o in un carcere all’estero, questo per i cittadini dell’Unione europea. Il caso di Chico Forti ha aperto una nuova prospettiva per l’esecuzione della pena, quella di avvicinare i detenuti alla propria casa, pur rimanendo sotto l’autorità di un’altra nazione. Applicare questa modalità anche all’interno del territorio nazionale, consentendo ai detenuti di essere vicini alla propria famiglia, rappresenterebbe un sollievo per i condannati, inclusi quelli condannati in primo grado. E ridurrebbe la pressione sulle strutture penitenziarie italiane. Questa proposta non rappresenta, a mio avviso, una violazione della legge, ma una modernizzazione del sistema giudiziario. Non contravverrebbe ai dettami costituzionali, poiché non sposterebbe la competenza dal giudice naturale, ma costituirebbe semplicemente una modalità moderna di eseguire una condanna dopo la sentenza di primo grado.
I contatti, come avviene per certi reati, potrebbero essere mantenuti tramite videoconferenza. Che questo avvenga tra tribunali e carceri italiani e quelli di altri Paesi dell’Ue non dovrebbe essere considerato incompatibile. I gradi di appello potrebbero essere effettuati in videoconferenza, facilitando i contatti con il legale e riducendo ulteriormente la pressione sulle carceri, permettendo ai detenuti di ottenere in patria i servizi necessari che spesso sono negati per i motivi sopra indicati.
Le sezioni detentive dovrebbero essere considerate non come un fardello, ma come il cuore pulsante del sistema penitenziario. Questi luoghi, spesso percepiti e vissuti come cupi e opprimenti, hanno il potenziale di diventare spazi di crescita e trasformazione. Quando le misure alternative non sono possibili per motivi oggettivi, è fondamentale che questi spazi siano gestiti con la massima competenza e con la dedizione che, con molta fatica, sono messe in campo da tutto il personale. Situazioni negative ci sono e mi guardo da assolverle. Per questo le sezioni detentive devono diventare la pietra fondante del sistema-carcere. O meglio, il cuore. Come il cuore di una persona batte per mantenerla viva, allo stesso modo le sezioni detentive possono rappresentare il battito vitale di un sistema giuridico più giusto e umano. Con un approccio più attento e consapevole, questi luoghi possono smettere di essere semplici spazi di contenimento per diventare il centro di un sistema di giustizia che non solo punisce, ma rieduca e reintegra. In questo modo, il sistema penitenziario non è solo un luogo di espiazione, ma un faro di possibilità per un futuro migliore.
Il personale di custodia, impegnato nelle sezioni, spesso sottovalutato se non discriminato, necessita di un riconoscimento anche economico e di supporto, in particolare con l’operatività condivisa con superiori di alti gradi, che vivono nelle sezioni, per gestire al meglio le diverse categorie di detenuti senza l’uso di mezzi coercitivi elettrici che potrebbero dare per assodato che la legalità non è possibile nelle carceri, per cui si potrebbe instaurare una idea di guerra. Solo con una organizzazione gestita in sezione detentive da alti vertici è possibile garantire un sistema custodiale più giusto ed efficace, evitando comportamenti aggressivi che derivano più dall’incapacità di gestire situazioni difficili in un contesto violento, che da una voluta malvagità specie se provocata.
Il risarcimento alle vittime da parte dei soggetti in misura alternativa rappresenta poi un tema critico. Attualmente, si osserva che le misure punitive non detentive tendono a trascurare completamente il risarcimento alle vittime dei crimini, privilegiando una visione umanistica e romantica di risarcire la società. Questo approccio non risponde alle esigenze di una giustizia più pragmatica e attenta al dolore di chi subisce danni, fisici e morali. Il risarcimento alle vittime dovrebbe quindi diventare una priorità, con rimborsi in denaro piuttosto che con incontri di mediazione, salvo eccezioni per i reati familiari.
In conclusione, una riforma del sistema penitenziario che metta al centro il recupero dei detenuti, il sostegno al personale di custodia e il risarcimento delle vittime può trasformare le sezioni detentive in luoghi di speranza e di giustizia reale. Inoltre, la riconversione delle caserme e di altre strutture dismesse rappresenta una soluzione praticabile per migliorare il sistema sia carcere che delle misure alternative alla detenzione. Questo approccio garantirebbe una gestione più umana ed efficace dei detenuti, specialmente di quelli con malattie mentali, e permetterebbe un uso più efficiente delle risorse pubbliche, favorendo il reinserimento sociale a costi inferiori rispetto a quelli del carcere tradizionale.
Come affermava Michel Foucault: “Non est carceratio simpliciter puniendi, sed et transformandi”. Per realizzare questo obiettivo, è imprescindibile che il sistema penitenziario adotti un approccio equilibrato e inclusivo, coinvolgendo anche gli Enti locali e il privato sociale specializzato, affrontando le sfide del sovraffollamento con soluzioni che vadano oltre l’espansione delle strutture carcerarie e che comprendano misure alternative, un supporto sociale e un risarcimento adeguato alle vittime.