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di Luigi Manconi

La Repubblica, 3 agosto 2023

Sciopero della fame: Lo Stato e le istituzioni rinunciano a salvare chi si trova nella custodia dell’autorità pubblica. Lasciare che rimanga in balia di se stesso e della decadenza del corpo corrisponde a determinarne la morte. La questione della risposta istituzionale agli scioperi della fame messi in atto dai detenuti mi sembra molto importante: e non perché mi senta afflitto da estremismo garantista. È che il detenuto che digiuna per protesta è davvero ridotto a se stesso e alla sua forma corporea estrema e ultima. In altre parole, è rimasto solo il suo corpo.

Come pensare dunque che lo Stato, qualunque sia il reato commesso, non faccia tutto il possibile per salvarlo? Come credere che si possa abbandonare quel corpo al suo destino? Non è vero che viene chiamata in causa tutta intera la responsabilità dello Stato?

È quanto mi viene in mente leggendo le notizie relative a Domenico Porcelli. Questi ha 49 anni ed è nato a Bitonto, in provincia di Bari. Si trova detenuto dal 2018 e, da quattro anni, in regime di 41-bis nel carcere di Bancali, nei pressi di Sassari. Lo stesso istituto penitenziario dove Alfredo Cospito, militante anarchico sottoposto al 41-bis, mesi fa ha intrapreso un lungo sciopero della fame durato 182 giorni, poi interrotto in seguito alla decisione della Consulta di considerare costituzionalmente illegittimo il mancato riconoscimento delle attenuanti.

Anche Porcelli sta portando avanti uno sciopero della fame: dal 28 aprile scorso il detenuto ha smesso di alimentarsi in segno di protesta, perché la misura del regime di 41-bis a lui applicata è stata prorogata. Il Tribunale di Matera ha condannato l’uomo a 26 anni e mezzo di carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso. Ma si tratta ancora di una sentenza non definitiva.

Dunque, un detenuto ancora in attesa di giudizio definitivo, sta scontando una pena in condizioni di isolamento, ore d’aria e colloqui limitatissimi, sospensione e controllo delle comunicazioni dall’esterno, privazione di oggetti e somme di denaro, mentre continua il suo sciopero della fame. E nessuno sembra interessarsene. Questo silenzio ricorda lo stesso atteggiamento che ha nascosto due vicende tremendamente simili a quelle di Porcelli e di Cospito e che hanno avuto un tragico esito. Lo scorso maggio, nel carcere di Augusta, in provincia di Siracusa, due detenuti sono morti a seguito di un digiuno, in un caso durato 60 giorni e nell’altro 41.

La notizia di queste morti è arrivata solo dopo il secondo decesso. Per un tempo lungo alcune settimane, la sofferenza e la protesta di due detenuti in sciopero della fame sono rimaste inascoltate, inosservate, ignorate. Il rischio è che l’azione di Domenico Porcelli prosegua nella stessa condizione di isolamento. L’unico aggiornamento sul suo stato di salute è quello diffuso da Rete Evasioni, che il 21 luglio scorso, sulla propria pagina Facebook, ha scritto: “Domenico è sceso sotto i 59 kg. L’avvocata l’ha trovato pelle e ossa, con dolori in tutto il corpo e incredulo del fatto che nessuno vada ad ascoltarlo e a dargli risposte”.

L’udienza a Roma che discuterà il reclamo contro il 41-bis presentato dalle avvocate Maria Teresa Pintus e Livia Lauria si terrà il 20 ottobre, quando ormai saranno trascorsi 8 mesi dall’inizio dello sciopero della fame. Inoltre, il Tribunale di Sorveglianza di Sassari ha dichiarato inammissibile la richiesta di differimento pena per gravi motivi di salute che era stata attivata d’ufficio.

Per Porcelli siamo ancora in tempo. Questo tempo però è così incerto e imprevedibile che può durare una manciata di giorni o di ore. Nel frattempo il suo corpo si deteriora, si indebolisce, si infiacchisce; e il suo stato di salute subisce danni irreversibili sul piano fisico e mentale. Si torna, dunque, al cuore della questione: come tutelare Domenico Porcelli? Lo Stato e le istituzioni rinunciano a salvare chi si trova nella custodia dell’autorità pubblica. Lasciare che rimanga in balia di se stesso e della decadenza del corpo corrisponde a determinarne la morte. È una responsabilità terribile.