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di Tiziana Maiolo

Il Dubbio, 27 agosto 2024

Ottaviano Del Turco è stato mio presidente alla Commissione Bicamerale Antimafia, ma soprattutto è stato un amico, un compagno, con cui parlare e parlare, in quegli anni, i primi novanta, in cui dirsi socialista, come lui orgogliosamente era, pareva una bestemmia. Ladri, corrotti, imbroglioni, così dicevano, e si sprecavano le fiaccolate in favore di Di Pietro, che doveva far sognare, e Craxi a testa in giù o con gli stivaloni. Ottaviano era diventato segretario del Psi, e intanto Bettino era latitante, o esiliato politico, se si preferisce. Il suo cursus honorum era lungo e prestigioso, parlamentare e membro di un governo e presidente dell’antimafia.

È bizzoso ed estroso pittore, con i quadri esposti nel ristorante in cui ogni tanto facevamo uno spuntino. Poi la partecipazione alla fondazione dl Pd, il nuovo partito nato dalle ceneri dei Ds e della Margherita. Una vita politica altalenante, ma che cosa si doveva fare in quegli anni? Finché non ci hanno pensato la magistratura e lo stesso Veltroni, che del Pd era il segretario, a far fuori Ottaviano Del Turco dalla vita stessa, prima ancora che da quella politica. Perché piano piano, con quel fardello addosso, Ottaviano non è stato più lo stesso. E ci è morto.

Pare enfatico citare sempre Enzo Tortora, ma così è stato per molti. La sua vita è finita quella mattina del 14 luglio del 2008, mentre a Parigi 40 capi di Stato e di governo, tra cui il premier italiano Silvio Berlusconi, festeggiavano l’assalto a una prigione, la Bastiglia, e l’inizio della rivoluzione francese, in Abruzzo il presidente della regione e mezza giunta venivano arrestati. Del Turco finirà nel carcere speciale di Sulmona. Per gli uomini della procura il governatore era sepolto da “una valanga di prove”.

Inutilmente il suo difensore Gian Domenico Caiazza ne aveva chiesto i domiciliari, il gip rispondeva che, dato il suo “profilo delinquenziale non comune”, se mandato a casa lui avrebbe sicuramente reiterato il reato. Antesignano di Giovanni Toti, dunque. E nipotini dei genovesi di oggi, i giudici abruzzesi. Del resto non era quella la stessa terra in cui nel 1992 una retata aveva distrutto tutta la giunta della prima repubblica, un governo Dc-Psi-Pli? Anche quella volta erano arrivati all’alba, con grande spiegamento di forze e i giornali che avevano già fiutato le prede, con una campagna mediatica condotta dai giornali del gruppo Caracciolo, la Repubblica, l’Espresso e quello locale di nome “Il Centro” a battere la grancassa. Superfluo dire che le assoluzioni fioccheranno negli anni successivi, con un piccolo strascico giudiziario per il presidente. Proprio come è capitato a Del Turco, quindici anni dopo. Il 14 luglio del 2008 quando fu arrestato il presidente della Regione Abruzzo con mezza giunta, c’era il quarto e ultimo governo Berlusconi, quello che verrà interrotto nel 2011 con il famoso “complotto” che aprirà le porte al governo tecnico di Mario Monti.

Sarà proprio il presidente del consiglio a schierarsi immediatamente per i diritti degli arrestati e ipotizzando un “teorema” politico. Del resto Berlusconi era alle prese con una serie di leggi sulla giustizia, e le polemiche con il sindacato delle toghe erano all’ordine del giorno. Così fu anche in quella circostanza. Non appena il capo del governo osò ipotizzare un teorema politico cui avrebbero potuto seguire le assoluzioni degli indagati, come infatti accadde, l’Anm reagì come il toro davanti al drappo rosso. Si delegittima la magistratura, disse come sempre, allora e oggi, il sindacato delle toghe. Ma non furono in tanti difendere Del Turco. Sicuramente non il Pd, il suo partito. Il segretario Walter Veltroni attese nove ore, prima di dare alle stampe uno scarno comunicato. Nove ore per scarabocchiare quello che chiunque di noi avrebbe potuto prevedere e scrivere in cinque minuti. Prima frase fatta: si faccia luce al più presto. Seconda: abbiamo fiducia nella magistratura. Terza: siamo sicuri che Ottaviano Del Turco saprà dimostrare la propria estraneità ai fatti contestati. Alla faccia della presunzione di non colpevolezza e dell’onere della prova che spetta all’accusa.

Fatto sta che a Del Turco non rimasero che le dimissioni. Detenuto nel carcere speciale di Sulmona, descritto dai magistrati come una sorta di delinquente abituale, sputtanato persino nelle vignette (come non ricordare quella veramente schifosa di Giannelli sul Corriere, che disegna una sala operatoria con un medico che allunga la mazzetta) e soprattutto abbandonato da quel “saprà dimostrare” dal segretario del suo partito, il governatore era quasi del tutto solo. E comincerà a morire a poco a poco. Si conteranno sulle dita di una mano quelli che ancora lo salutavano, se andava in Parlamento dove un tempo era riverito. Così la disperazione si tramuta presto in malattia, quella in cui ci si rifugia come in una bolla quando la realtà fa troppo soffrire. Ci aveva detto addio già da un po’ di tempo, Ottaviano Del Turco. Socialista, amico e compagno. Una parola il cui uso va dosato, ma oggi ci tengo.