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recensione di Tito Lucrezio Rizzo

L’Opinione, 3 agosto 2023

Una spiccata notorietà in ambito europeo acquisì l’opera “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria (1764), il quale sostenne che il magistero penale avrebbe dovuto ispirarsi più a un fine di difesa sociale, che a quello di comminare dei castighi, innanzi a delle responsabilità che dovevano essere sempre personali e mai “oggettive”. Criticò conseguentemente la pratica diffusamente in uso della tortura, la disumanità delle leggi e della pena di morte, la qual ultima andava nella generalità dei casi abolita, poiché il potere deterrente della sanzione non era legato all’entità del suo ammontare in astratto, bensì alla certezza della sua applicazione. Le pene dovevano perciò essere miti, ma sicure, senza alcuna eccezione alcuna, come quella rappresentata dalla grazia. Non dovevano in conclusione gli esecutori delle norme fare ricorso a degli atti di indulgenza particolare, bensì occorreva che il legislatore fosse saggio, misericordioso e umano per la generalità dei casi.

Da allora la legislazione penale ha compiuto - naturalmente - dei grandi passi, fino ad arrivare ai tempi attuali, che costituiscono l’oggetto del pregevole libro della professoressa Antonina Giordano e della dottoressa Ilaria Leccese Delitti di criminalità organizzata e collaboratori di giustizia: luci e ombre del regime penitenziale premiale. Ivi viene affrontato un tema di particolare attualità, nel confronto sul rapporto costi-benefici nella legislazione sul pentitismo che, se per un verso ha consentito notevoli successi sotto il profilo investigativo, per altro verso ha evidenziato delle criticità sia sotto il profilo dell’attendibilità dei cosiddetti collaboratori di giustizia, che sotto quello di un reale ravvedimento interiore da parte degli stessi, e quindi di una netta rescissione dei legami con il mondo malavitoso.

Il libro è l’edizione aggiornata alla più recente normazione, dottrina e giurisprudenza, del testo che nel febbraio del 2019 ottenne dalla Camera dei deputati il prestigioso Premio “Falcone e Borsellino”, grazie all’accurata analisi del fenomeno mafioso e del correlato sistema sanzionatorio, offerta con un nitore espositivo tale da renderlo accessibile anche al più vasto pubblico dei “non addetti ai lavori”. Il testo prende le mosse dalle finalità proprie del sistema penitenziario: quella punitiva e quella recuperativa, al fine del reinserimento nella società civile. Viene evidenziato il “sistema binario “con dei circuiti trattamentali differenziati, a seconda della tipologia del crimine commesso e dell’ambito in cui è stato realizzato, singolarmente o in un sistema di criminalità organizzata, nel qual ultimo caso il legislatore è naturalmente più severo nel momento sanzionatorio.

Se, peraltro, il reo si dissocia fattivamente dall’organizzazione delinquenziale di provenienza collaborando con la giustizia, lo Stato interviene con la concessione di benefici penitenziari e misure di protezione in suo favore, venendosi in tal modo a realizzare una sorta di “sartorializzazione” della pena, perfettamente aderente con gli scopi sanciti dalla Costituzione (articolo 27,3: “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”), e con quei requisiti di equità sostanziale che in ogni Paese civile sono volti a temperare il rigor iuris della Legge, intrinsecamente generale e astratta. Prendendo le mosse dalle origini del crimine organizzato nostrano (mafia, camorra, sacra corona unita), vengono citati anche rilevanti fenomeni di “importazione “romena, cinese, nigeriana, nordafricana, che nel loro insieme sono definiti “mafie”.

Dal punto di vista strutturale, i sodalizi malavitosi hanno dei moduli organizzativi e operativi abbastanza omogenei: “Il crimine organizzato-osservano le AA - inteso come rete strutturata e gerarchicamente ordinata, risulta idoneo ad inserirsi fruttuosamente nella realtà economica e nei rapporti con le amministrazioni dello Stato, provocando una devianza dell’ordinamento democratico, definibile validamente come fallimento dello Stato”, operando anche tramite una sorta di rete transnazionale per la reciproca collaborazione, fra le strutture criminali dei vari continenti. Segue un ampio excursus storico-giuridico sul fenomeno mafioso in senso lato, intendendosi questo termine genericamente onnicomprensivo di tutte le organizzazioni criminali, che il legislatore ha opportunamente contemplato nell’articolo 416 del Codice penale, concernente il reato di associazione a delinquere, punibile già per l’esistenza di un vincolo associativo finalizzato alla commissione di reati, a prescindere dal fatto che vengano commessi o meno (cosiddetto “reato di pericolo”). Nel 1992 è stato introdotto un reato più specifico, con l’articolo 416 bis del Codice penale, per fronteggiare la specificità dell’organizzazione mafiosa, con la sua forza intimidatrice e omertosa.

A fronte del “salto di qualità” compiuto dalla criminalità organizzata, con sempre più vaste ramificazioni e interazioni a livello internazionale, lo Stato ha risposto con una serie di misure di prevenzione sin dal 1965, per arrivare in ultimo, nel 2011, al Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, onde agire in anticipo contro i disegni organizzativi ed espansivi di una malavita ormai globalizzata, anche grazie alle opportunità offerte dalla tecnologia informatica. Ricorrono nel libro di cui si discorre, ampi ed esaustivi riferimenti di dottrina e di giurisprudenza, anche sul tema del trattamento differenziato della pena, nell’ottica rieducativa attivata a far data dalla riforma del 1975 sull’ordinamento penitenziario, per la richiamata individualizzazione della pena, in base alla rilevanza di un serio impegno collaborativo da parte dal detenuto, al fine del suo reinserimento nella società civile.

Tra i benefici penitenziari analizzati, assumono una particolare rilevanza l’assegnazione al lavoro esterno, i permessi premio, l’affidamento in prova ai servizi sociali, la detenzione domiciliare, il regime di semilibertà. È il principio di flessibilità delle modalità attuative della pena, che pur essendo doverosamente predeterminata nella necessaria astrazione generalizzante del legislatore, può nei casi particolari essere oggetto del richiamato adattamento sartoriale alla personalità del singolo reo, attraverso un apposito percorso riadattativo-trattamentale. Nascono da tale esigenza le sanzioni sostitutive, che consentono (nei casi in cui non è applicabile la mera pena pecuniaria) di applicare misure limitative della libertà personale (quali la libertà controllata e la semidetenzione) meno costrittive della reclusione e che, non comportando un totale sradicamento, rendono più facile il reinserimento sociale del condannato.

Nella medesima ottica rientrano le misure alternative alla detenzione, quali l’affidamento in prova al servizio sociale e la semilibertà. Sono istituti che consentono al condannato alla reclusione, di evitarla in tutto o in parte (come nel caso della semilibertà, purché si rispettino determinate prescrizioni). Dalla stessa logica nascono gli istituti giuridici della liberazione anticipata e dei permessi premio riconosciuti dall’ordinamento penitenziario. È a far data dagli anni ‘70 che il principio rieducativo assurse a valore fondante di varie riforme legislative; mentre nella stessa Corte Costituzionale si veniva affermando il riconoscimento del richiamato principio, vuoi in materia di misure di sicurezza (sentenza 167/1972), vuoi in materia di libertà condizionale (sentenza 204/1974), al qual ultimo riguardo essa statuì che “in virtù del disposto costituzionale sullo scopo della pena, sorge per il condannato il diritto al riesame della pena in corso di esecuzione, al fine di accertare se la quantità di pena espiata, abbia o meno realizzato positivamente il proprio fine rieducativo”.

Dopo la nota riforma dell’ordinamento penitenziario, avviata con Legge 354/1975, il carcere venne considerato, alla luce dell’articolo 2 della Costituzione - con un’interpretazione a nostro avviso alquanto ardita, ma significativa dell’evoluzione della dottrina e della giurisprudenza verso la preminenza delle finalità rieducative - come una “formazione sociale” dove il recluso deve poter estrinsecare la sua personalità, compatibilmente con il suo peculiare status. Tuttavia il sistema in parola venne guardato con crescente diffidenza, a causa dell’aumento della criminalità - segnatamente di tipo eversivo - che produsse una sempre più accentuata domanda di sicurezza: si giunse così a parlare di “crisi del mito del trattamento”. In realtà il sistema sembrava dare buoni frutti nel campo dei reati comuni, laddove nell’ambito di quelli più gravi, attività come il terrorismo dovettero affrontarsi con una legislazione d’emergenza adeguata alla devastante patologia del fenomeno, che impose di preservare il valore primario della salus suprema rei publicae di classica memoria.

A far data dagli anni Ottanta il giudice costituzionale attribuì al principio rieducativo il “criterio finalistico principale” anche per gli ergastolani, per cui con sentenza 274/1983 statuì che “la possibilità di ottenere una riduzione della pena incentiva e stimola nel soggetto la sua attiva collaborazione all’opera di rieducazione. Finalità, questa, che il vigente ordinamento penitenziario persegue per tutti i condannati a pena detentiva, compresi gli ergastolani”. Il libro di cui si discorre, si conclude con un’esaustiva disamina della “nuova premialità” dell’ordinamento penitenziario, strettamente funzionale alle finalità rieducative del sistema carcerario, cui deve far riscontro la fattiva condotta collaborativa del recluso, che a determinate condizioni viene ammesso a speciali misure di protezione.

“Delitti di criminalità organizzata e collaboratori di giustizia: luci e ombre del regime penitenziale premiale”, di Antonina Giordano e Ilaria Leccese, Di Carlo Edizioni, 18,77 euro