sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

recensione di Federica Salvati

La Repubblica, 1 aprile 2022

“Tre metri quadri. Quattro anni di visite in carcere”, di Alessandro Capriccioli, ed. People. Raccontare il carcere significa soprattutto raccontare le persone che vivono lì dentro, dai detenuti agli agenti di polizia penitenziaria fino ai volontari che svolgono servizi essenziali.

Entrare in carcere è un privilegio. Può sembrare un controsenso, ma tecnicamente è proprio così: possono accedere agli istituti penitenziari solo poche categorie di cittadini liberi, tra cui i consiglieri regionali nei limiti della propria circoscrizione. Proprio in questa veste Alessandro Capriccioli negli ultimi 4 anni ha effettuato una quarantina di visite nelle carceri del Lazio e negli altri luoghi di privazione della libertà come i Cpr (centri per il rimpatrio) e le Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza): da questa attività è nato un libro dal titolo “3 metri quadri”, eloquente sintesi della condizione spaziale in cui sono costretti a vivere i detenuti.

Le persone. Raccontare il carcere significa soprattutto raccontare le persone che vivono lì dentro, dai detenuti agli agenti di polizia penitenziaria fino ai volontari che svolgono servizi essenziali. I detenuti e le detenute nel Lazio sono in totale circa 5500, dislocati nei 14 istituti della regione, di cui uno minorile, spesso sovraffollati e malmessi dal punto di vista strutturale. Il personale è sempre sottodimensionato e molti agenti sono anziani, quindi usurati da un lavoro sfiancante sia psicologicamente sia fisicamente. Le persone che si trovano in carcere sono sostanzialmente persone che hanno commesso dei reati, anche se esiste una consistente parte della popolazione carceraria che si trova lì in attesa di giudizio e quindi è tecnicamente innocente. Ma i reati, anche quelli più odiosi, in carcere non ci sono. Restano le persone che nella maggior parte dei casi “sono malvestite e hanno un aspetto trascurato e dimesso. Alcune sono pallide, emaciate, con pochi denti in bocca. Gli stranieri, che in media sono più giovani e sembrano più in salute degli altri, hanno addosso indumenti rimediati: tute, canottiere, ciabatte, maglie scolorite”, scrive Capriccioli a proposito di una visita presso la casa circondariale di Regina Coeli.

I bambini. In carcere ci sono uomini, donne, anziani, adolescenti e purtroppo anche bambini, che secondo l’ordinamento vigente possono vivere fino a 3 anni con le loro madri all’interno degli istituti penitenziari. A Rebibbia sezione femminile c’è un asilo nido e le stanze sono state adattate alla presenza dei bambini, che spesso vengono concepiti proprio col fine di restare fuori dal carcere: “L’agente di polizia penitenziaria che ci accompagna racconta che per alcune donne quella di fare figli è una specie di strategia: per ogni bambino può corrispondere a un differimento della pena, e per questo c’è chi ne concepisce e partorisce uno dopo l’altro pur di rimandare il proprio ingresso in carcere, fino al momento in cui per forza di cose questo meccanismo si interrompe e in carcere ci si deve entrare, per scontare tutte insieme le pene che si sono accumulate [...] “Ne ho altri tredici a casa”, dice la signora con cui stiamo parlando mentre sorride, mostrando le finestre vuote dei denti che le mancano”.

La discarica sociale. Più di un terzo della popolazione carceraria è composto da uomini e donne tossicodipendenti o che ha commesso reati legati al mondo della droga: questo significa che chi non trova spazio all’interno della nostra società per motivi spesso legati al contesto di riferimento, viene spostato in uno spazio diverso, lontano, dove l’emarginazione sociale cui era destinato fuori dal carcere diventa emarginazione anche fisica. “Il carcere, paradossalmente, esercita anche questo ruolo: raccogliere e tenere dentro tutto quello a cui fuori non siamo capaci di dare risposte, tutto quello che fuori non serve a nessuno”, scrive Capriccioli nel libro. Per questo entrare in carcere aiuta a comprendere la realtà che c’è fuori e a vedere con una chiarezza disarmante tutto quello che non funziona all’interno della nostra società. Il privilegio di entrare nelle carceri che spetta solo ad alcune categorie (ma anche all’interno di queste viene esercitato da pochissime persone) dovrebbe appartenere a tutti perché: “in una società quando le cose funzionano, funzionano per tutti. Quando invece funzionano per una parte, rischiano di non funzionare per niente e per nessuno”.