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di Flavia Perina

La Stampa, 12 ottobre 2023

I partiti ripassano a suon di mozioni la loro “linea storica”, ma nessuno conosce davvero la Gaza di oggi. Nel Paese di Machiavelli pure la risoluzione su una strage di innocenti diventa un esercizio di equilibrismo e sottigliezza, e così la mozione unitaria sull’attacco di Hamas a Israele non c’è stata ma il voto incrociato delle destre sulla mozione della sinistra, della sinistra sulla mozione delle destre e del terzo polo su quelle degli altri due, ha tenuto insieme le cose. Dicono che una parte delle destre, la Lega e qualche pezzo di FdI, puntasse al voto contrapposto per poter accusare gli avversari di occulto sostegno ad Hamas. Dicono che in extremis Palazzo Chigi e soprattutto la Farnesina ci abbiano messo una pezza (il voto incrociato) rendendosi conto dell’enormità della cosa. Ma il background della confusa giornata parlamentare di martedì è storia che precede di gran lunga l’attualità, i melonismi, i salvinismi, gli schleinismi, i bonellismi, vecchia quanto la nostra democrazia, e persino precedente. È la storia della nostra iper-fedeltà atlantica e al tempo stesso dei nostri patti segreti con i movimenti palestinesi, della destra innamorata di Moshe Dayan ma al tempo stesso memore della spada dell’Islam alzata da Benito Mussolini in Libia, della sinistra resistenziale, antifascista, antirazzista, culla della denuncia di ogni riflesso antisemita ma al tempo stesso incline a fischiare la Brigata Ebraica ogni 25 aprile.

Se oggi, in una mozione di condanna e solidarietà che poteva parere scontata, si pesano pure le virgole è perché ogni virgola sarà soppesata e valutata dai quadri politici minori e dalla vecchia guardia dei rispettivi elettorati, quella che sulla questione palestinese (per decenni l’abbiamo chiamata così) si è accapigliata nei licei degli anni Settanta, ai tempi del Kippur o addirittura della Guerra dei Sei Giorni. Settantenni che hanno una vecchia kefiah nel cassetto dei ricordi o che scrivevano sui muri Arafat Assassino, mica tutti dalla stessa parte, anzi piuttosto confusi trasversalmente agli schieramenti. Sì, perché prima dei macellai di Hamas, prima dell’Isis e di Al Qaeda, prima della minaccia nucleare iraniana, prima che gli Usa si ritirassero nel loro angolo di mondo, prima dello scontro di civiltà, quando ogni conflitto era territoriale, politico, laico, e le guerre di religione risultavano un capitolo ancora da scrivere, il “peccato originale” (cit. Shimon Peres) del popolo senza terra fu l’epicentro di ogni ragionamento sui diritti dei popoli, tema che più di ogni altro appassionò la generazione dei boomer.

C’era l’Irlanda, certo. C’era la mite resistenza del popolo tibetano, e ovviamente il Vietnam (a sinistra) e le rivolte di Budapest e Praga (a destra), gli armeni e i curdi. Ma la Palestina sovrastava tutto grazie alla leadership carismatica di Yasser Arafat, l’uomo che nel Duemila la portò a un passo dai “due popoli e due Stati” e poi si tirò indietro, temendo forse di perdere il controllo sulla sua organizzazione. “Una personalità veramente eccezionale, che per anni, per decenni, è stato il centro significativo di una grande battaglia, di grandi drammi, di una terribile tragedia”: non sono parole di Nicola Fratoianni ma di Mirko Tremaglia, colonna del vecchio Movimento Sociale, guardiano della sua collocazione atlantica e filo-americana, l’uomo che nel 1985 si dimise da responsabile Esteri del partito a causa di un voto del Comitato centrale ostile agli Usa sulla crisi di Sigonella. E al tempo stesso, nel mondo della destra missina, era diffusa l’ammirazione per Israele: non l’Israele dei kibbuz e delle esperienze di socialismo comunitario ma l’Israele in armi, l’Israele di Moshe Dayan, l’eroe dei Sei Giorni, e degli studenti capaci di lasciare i libri e imbracciare il fucile per difendere la loro terra minacciata.

A sinistra le contraddizioni furono minori. L’abbraccio alla “vecchia” causa palestinese è stata una costante della politica estera del Pci, delle sue relazioni, delle battaglie diplomatiche per la legittimazione dell’Olp, tantochè Yasser Arafat seppure inseguito da un mandato di cattura dei pm di Verona (traffico d’armi con le Br, accusa finita in fumo) riuscì a partecipare ai funerali di Enrico Berlinguer ottenendo per vie politiche la garanzia che nessuno lo avrebbe arrestato allo sbarco a Fiumicino. E tuttavia anche lì la Questione Palestinese si è fatta via via secondaria, evanescente, seppellita dalle nuove urgenze internazionali scatenate dall’Undici Settembre. Nessuno ne ricorda gli sviluppi. Pochi hanno presente che la Gaza di oggi, la Gaza imprigionata tra muri e reticolati, senza acqua né luce e presto senza cibo e medicine, nasce nel 2005 da una scelta che sembrò felice e positiva, il completo ritiro degli israeliani dalla Striscia con lo sgombero concordato o forzato di tutti i coloni. Che quel ritiro fu festeggiato come un segnale di speranza. Che un anno dopo i falchi di Hamas vinsero le elezioni e anziché inaugurare una nuova fase festeggiarono facendo fuori ogni esponente di rilievo di Al Fatah, il partito fondato da Arafat. Che da allora i palestinesi non hanno più potuto votare e il loro status di doppia prigionia, un agguerrito esercito oltre i muri e inflessibili milizie all’interno, è sempre peggiorato.

Insomma, l’eco novecentesca della questione palestinese andrebbe aggiornata, ma le classi dirigenti, i partiti, le persone, se ne sono dimenticati per così tanto tempo che risulta difficile farlo. Nella manifestazione milanese in favore di Hamas e contro Israele si sono sentiti gli stessi slogan che sentivamo da ragazzi su Al Fatah, e brillavano non solo di scarsa umanità verso le vittime innocenti delle stragi di sabato ma anche di ignoranza e approssimazione. E tuttavia si capisce che le singole forze politiche, davanti all’urgenza di trovare una posizione unitaria, si siano arrese e abbiano prodotto, alla fine, lo spettacolo di quattro mozioni diverse e però votate da (quasi) tutti con uno scambio incrociato di cortesie. Ciascuno ha il suo tributo da versare alle suggestioni del passato, ciascuno ha studiato la frase di riferimento che sarà percepita dai suoi come “fedele alla linea”, anche se quella linea almeno da un ventennio è stata fatta in pezzi dagli eventi.