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di Alessandra Vescio

Marie Claire, 29 giugno 2024

“Così come il carcere è distillato e persino avamposto della vita per quanto riguarda sentimenti e cambiamenti sociali, allo stesso modo lo è per la condizione delle donne. Proprio come succede fuori, anche dentro le donne stanno peggio degli uomini”. Scrive così la giornalista e scrittrice Daria Bignardi nel suo ultimo libro “Ogni prigione è un’isola”, in cui racconta della condizione delle carceri italiane. Bignardi da molti anni svolge attività di volontariato in carcere, un’esperienza che le ha permesso di conoscere bene i limiti, la violenza e l’inutilità del sistema attuale, come le hanno confermato anche alcune persone che ci lavorano.

“Il carcere è la cosa più stupida che esista”, le ha detto ad esempio Michele, ispettore di polizia penitenziaria. Se ciò è valido per tutti, lo è in particolare per le donne. Costituendo poco più del 4% del totale delle persone detenute in Italia, le donne sono condannate principalmente per reati meno gravi rispetto agli uomini e con pene inferiori. Molte di loro provengono da contesti di marginalizzazione sociale, di violenza e abusi, e spesso finiscono in carcere “per aver protetto un uomo o perché sono state sfruttate da un uomo”, scrive Bignardi.

È soprattutto in questi casi, sostiene la professoressa associata di Sociologia giuridica, della devianza e mutamento sociale Francesca Vianello, che il carcere non rappresenta una soluzione: “Per il tipo di struttura che è, per cui riduce al massimo i contatti con l’esterno e con la famiglia, rischia infatti di diventare un ulteriore ostacolo al reinserimento sociale. Piuttosto, bisognerebbe prevedere forme di esecuzione penale esterna, come misure di affidamento al servizio sociale”. Secondo Vianello, infatti, “il contenitore carcere potrebbe avere senso solo qualora riuscisse a funzionare come collettore di disponibilità di risorse di tipo sociale, attraverso l’incontro con operatori, medici, educatori, assistenti sociali, e quel percorso di trattamento individualizzato e personale previsto dalla legge. Anche in questo caso però è necessario avere sempre una prospettiva post pena o con una pena in esecuzione extra muraria, altrimenti non serve a niente”.

Il rischio, spiega l’esperta, è che il carcere vada a creare solo un ulteriore svantaggio: “Oltre che sofferenza, la detenzione porta con sé anche stigma sociale”, con cui fare i conti una volta fuori.

Nel percorso di trattamento individualizzato accennato da Vianello rientrano le cosiddette attività trattamentali, e cioè le opportunità lavorative, formative e culturali che sono necessarie per il benessere della persona oltre che per una prospettiva di reinserimento sociale. Se queste attività sono carenti per tutti a prescindere dal genere, per le donne la situazione è particolarmente complicata. In Italia infatti esistono quattro carceri esclusivamente femminili, che accolgono meno del 25% del totale delle detenute: le altre scontano la pena nelle oltre quaranta sezioni femminili all’interno delle carceri maschili. Secondo un’indagine dell’associazione Antigone che si occupa della tutela dei diritti nel sistema penale e penitenziario e di cui la professoressa Vianello fa parte, solo nel 10% degli istituti misti, però, le iniziative sono in comune per uomini e donne: in tutti gli altri casi, sono separate per genere.

Questo può tradursi in una mancanza di opportunità per le detenute, il cui numero ridotto è definito spesso come insufficiente per organizzare attività a loro dedicate: nelle sezioni più piccole, ad esempio, i corsi di formazione professionale e di istruzione di secondo livello sono pochi o del tutto assenti. Come sottolinea la professoressa Vianello, “le risorse non sono distribuite in tutti gli istituti equamente”, ma le difficoltà vanno oltre la superficie: “A livello percentuale, le donne detenute che lavorano sono quasi di più rispetto agli uomini, così come non mancano ovunque i corsi professionali; anche gli educatori in proporzione sono in numero maggiore nelle sezioni femminili”.

Il problema è piuttosto un altro: il tipo di lavoro che viene perlopiù affidato alle detenute impegna e paga poco; la formazione professionale è organizzata in alcuni casi in un’ottica stereotipata, per cui vengono tipicamente offerti corsi di pasticceria, ricamo o sartoria; e soprattutto i bisogni specifici delle donne vengono tenuti poco in considerazione. Il carcere è un sistema androcentrico, e cioè è pensato, creato e organizzato da uomini e per gli uomini, ma “le esigenze delle donne sono di tipo diverso, così come lo è la loro sofferenza”, spiega Vianello.

Al netto del fatto che la privazione della libertà e l’allontanamento dagli affetti generano malessere in chiunque ne faccia esperienza, chiarisce la docente, la questione di genere nella detenzione è centrale: “Per ragioni culturali e per com’è costruita la nostra società, le donne molto spesso si fanno carico della dimensione relazionale, familiare e di sostegno psicologico. Quando questa si interrompe, per le donne vengono meno risorse importanti, ma anche il senso del sé e della propria utilità”. Perciò, “anche il pensarsi in una prospettiva trattamentale e risocializzante, non avendo strumenti di tipo relazionale con gli amici e la famiglia”, può risultare difficile. Non è un caso allora che gli atti di autolesionismo siano quasi il doppio tra le donne rispetto che tra gli uomini, così come più alti sono anche i tentati suicidi.

In un incontro con le detenute di Tirana raccontato nel suo libro, Daria Bignardi nota come le sia capitato più volte di incontrare donne in carcere in lacrime, mentre mai ha visto piangere un detenuto. Chiedendo alle presenti se avessero idea del perché questo succeda, una delle detenute ha risposto: “Perché quando un uomo entra in carcere la moglie o la madre lo vanno a trovare e si prendono cura di lui, mentre a noi, anche se siamo dentro per causa loro, ci abbandonano, ci ripudiano”. Sono donne che piangono per la solitudine, l’isolamento, l’abbandono e, se li hanno, anche per i figli. Alla fine del 2021, le madri nelle carceri italiane costituivano il 63,7% delle donne detenute.

Nonostante rappresentino dunque una buona fetta della popolazione femminile in istituti penitenziari, di loro ci si occupa ben poco. Come ha scritto il ricercatore in diritto penale e membro di Antigone Campania Marco Colacurci, “se il mondo all’esterno del carcere assegna alla donna, volente o nolente, soprattutto il ruolo di madre, quello all’interno non si preoccupa più di questo aspetto, o, al limite, lo utilizza in chiave punitiva”.

Spesso manipolato per indurre senso di colpa nelle donne in stato di detenzione, perché avrebbero dato il cattivo esempio e abbandonato i loro figli, il tema della maternità non è infatti tenuto in considerazione in altro modo: non si parla del dolore delle madri separate dai loro figli, non si cercano soluzioni efficaci e a lungo termine per chi non ha nessuno fuori a cui lasciarli.