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di Valter Vecellio*

Il Dubbio, 6 settembre 2024

I detenuti fanno notizia solo se sono violenti contro se stessi o gli altri, non per le proteste non violente. Carceri come bombe ad orologeria: basta un “nulla” ed ecco che esplodono. Così le cronache riferiscono di risse tra detenuti e disordini nel carcere minorile di Bari (esagerato chiamarla rivolta). Ultimo di una serie di episodi che si sono verificati a Roma, Torino, Milano. Quanto basta perché Federico Pilagatti, segretario di un sindacato della polizia penitenziaria, il Sappe, inviti a riflettere sulla “tempistica”; Pilagatti non esclude “l’esistenza di una regia occulta dietro quanto sta accadendo. Una regia che tende a voler destabilizzare la situazione nelle carceri, comprese quelle per minori”.

Tutto può essere, per carità; tuttavia, riesce difficile immaginare a una sorta di complotto ordito per creare nelle carceri italiane un clima di tensione ed estremo disagio. Che bisogno c’è di impegnarsi in questo senso? Esistono da sempre. Si può ulteriormente favorirlo e alimentarlo, ma a questo punto sorge spontanea la domanda: chi ne ricaverebbe un qualche interesse? Non certo i detenuti e la più vasta comunità penitenziaria. Non certo i sostenitori di misure urgenti e adeguate per superare questa situazione. L’interesse (il proverbiale cui prodest?) è solo di quanti non intendono superare la situazione esistente; di chi concretamente e nei fatti oppone ostacoli e barriere a ogni politica di riforma; a chi ritiene e opera perché il carcere sia sempre più luogo esemplare di pena e non di recupero e rieducazione.

Non ci si deve stupire per quello che accade nelle carceri. Piuttosto è stupefacente quello che NON accade. Risse, disordini, “rivolte” data la situazione esistente, dovrebbero essere molte di più. Non è, ovviamente, un invito alla violenza. È un constatare che in una situazione drammatica detenuti e comunità penitenziaria stanno comunque dando una straordinaria prova di maturità e responsabilità.

Dall’inizio dell’anno una settantina di detenuti si sono tolti la vita. Sono quelli “ufficiali”. Più sette di agenti della polizia penitenziaria. Tanti, insopportabilmente tanti. Tuttavia, stante la situazione - ha ragione Adriano Sofri - dovrebbero/potrebbero essere molti di più. Invece trovano il coraggio di vivere e resistere, patire, soffrire, subire. Altro che “Mecca” come sciaguratamente ha detto un sottosegretario alla Giustizia.

Chi fa informazione ha la sua buona quota di responsabilità. Questi detenuti suicidi, questi agenti della polizia penitenziaria che si tolgono la vita, quelli che cercano di farlo e vengono salvati in extremis, quelli che sono tentati di farlo e grazie al cielo non lo fanno, sono solo “numeri” per la maggior parte dei mezzi di comunicazione. Pochissimi si prendono la briga di raccontare chi erano queste persone.

Ebbene, c’è di tutto: c’è chi si è tolto la vita subito dopo l’ingresso in prigione, chi poco prima di lasciarla. Chi era vittima delle dipendenze e chi di sofferenze psichiatriche. Si sono quasi tutti impiccati: col laccio dei pantaloni, chi con le lenzuola, con una corda. C’è chi si soffoca con un sacchetto di plastica, qualche altro riempiendosi i polmoni di gas o altre sostanze. A volte non sono morti subito, gli agenti della penitenziaria hanno provato invano a rianimarli. Età media 37 anni, più stranieri che italiani. Reati che vanno dall’omicidio al piccolo spaccio, tanti con dipendenza dalla droga. Non di tutti sono noti nomi e cognomi. Poche righe per Matteo, 23 anni. Soffriva di disturbo bipolare. Era rientrato nel carcere perché, svolgendo la pena alternativa lavorando in una pizzeria, aveva sforato sull’orario di rientro a casa. Aveva detto alla madre: “Se mi riportano in isolamento, mi ammazzo”.

Poche righe per Stefano, 26 anni: soffriva di depressione. Alam, 40 anni, del Bangladesh, si impicca con un pezzo di lenzuolo pochi giorni dopo il suo ingresso. Fabrizio, 59 anni, si impicca nel padiglione di alta sicurezza del carcere di Agrigento. Andrea, 33 anni, detenuto a Poggioreale, soffriva di disturbi psichiatrici… È un elenco interminabile di sofferenza e disperazione. Quello che colpisce, dovrebbe colpire, è che la maggior parte delle persone che si tolgono la vita sono cittadini in attesa di giudizio, quindi innocenti. Per questa situazione che si trascina da decenni, puntiamo l’indice contro il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il suo governo. Hanno le loro gravi responsabilità. Non dimentichiamo però che accanto a indifferenze e carenze croniche e strutturali c’è anche il perdurante uso abnorme della carcerazione preventiva: troppo spesso ci si dimentica che dovrebbe essere una misura straordinaria, da applicare solo in presenza di determinate condizioni: il rischio di reiterazione del reato o il pericolo di fuga, l’inquinamento delle prove. Ormai quella della carcerazione preventiva è diventata una prassi ordinaria. Quanti, di quella settantina di detenuti che si sono suicidati, e quanti delle centinaia di tentati suicidi sventati dall’intervento della polizia penitenziaria, quanti erano in carcere in attesa di giudizio, per quali reati; e potevano beneficiare di un’alternativa alla carcerazione? Se sì, perché non ne hanno beneficiato? Possibile che non un deputato o un senatore se lo chieda; possibile che non un direttore di giornale ne abbia curiosità?

Per tornare alle risse, ai disordini, alle “rivolte”: occorre essere chiari: violenze e comportamenti aggressivi non sono giustificabili e non si giustificano; sono oltretutto inutili e dannosi, non solo non si risolvono i problemi; li aggravano anzi, a farne le spese sono detenuti, agenti della polizia penitenziaria, operatori sul campo cui si imputano colpe di cui non sono responsabili.

Non si giustifica ma si può capire. Se i detenuti sono ignorati quando fanno scioperi della fame o ricorrono ad altre forme di lotta nonviolenta, e di loro si parla solo quando si abbandonano a manifestazioni violente, cosa volete che faccia un detenuto? O fa violenza contro se stesso, e si uccide; o la fa contro altri, e scoppia la rivolta. È un meccanismo atroce.

La citata affermazione del sottosegretario alla Giustizia dopo una sua inutile visita al carcere di Taranto, che non si inchina alla Mecca dei detenuti è stata ampiamente ripresa e citata. Giusto. È bene che si sappia che personaggio sgoverna a via Arenula. Nelle stesse ore decine di dirigenti e militanti del Partito Radicale effettuavano visite, serie, in carcere: considerati da quasi tutti i mezzi di informazione “non notizia”. Quest’anno c’erano anche dirigenti di un partito di governo, Forza Italia. Anche loro non notiziabili. La Rai, servizio pubblico pagato da tutti, non dimentichiamolo mai, non ha organizzato un dibattito, un confronto, uno speciale per informare su questa situazione. Il diritto al diritto e ai diritti; il diritto alla conoscenza: queste sono le priorità e le urgenze di questo Paese.

*Direttore di “Proposta Radicale”