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di Antonio Monda

La Repubblica, 13 agosto 2022

“L’ironia tagliente, acuta e a volte anche spietata, è una delle caratteristiche che ne contraddistinguono l’intelligenza veloce e brillante, ma è evidente che l’episodio che ha cambiato per sempre la sua vita lo costringe a vivere con un alone di incertezza e preoccupazione, anche quando cerca di mostrare il contrario”.

“Anche quando riesco a vivere normalmente, e la vita sembra riconquistare la propria quotidianità, con il suo alternare la speranza alla delusione e l’eccitazione alla noia, c’è un momento, ogni anno, in cui vengo rituffato violentemente nell’incubo iniziato nel 1989: ogni 14 febbraio, giorno in cui l’ayatollah Khomeini ha lanciato la fatwa su di me dopo la pubblicazione dei Versi Satanici, mi arrivano le minacce di chi vorrebbe vedermi morto. Da allora è questo il mio San Valentino”.

Salman Rushdie me lo ha raccontato poche settimane fa, quando ha accompagnato la poetessa Rachel Eliza Griffiths alle Conversazioni a Capri, scherzando sul fatto di essere semplicemente il suo “plus one.” L’ironia tagliente, acuta e a volte anche spietata, è una delle caratteristiche che ne contraddistinguono l’intelligenza veloce e brillante, ma è evidente che l’episodio che ha cambiato per sempre la sua vita lo costringe a vivere con un alone di incertezza e preoccupazione, anche quando cerca di mostrare il contrario.

Ha scelto di vivere in America per sentirsi più sicuro, facendo gradualmente a meno alla protezione, ritenuta ormai superflua, dopo che nel 1998 l’ayatollah Khatami aveva ritirato la fatwa. Ma poi, implacabili, sono continuati ad arrivare gli “auguri di San Valentino”, e quell’alone ha preso i contorni di un’ombra cupa, impossibile da rimuovere, specialmente quando l’ayatollah Khamenei ha dichiarato nel 2005 ancora valida la condanna a morte, e parallelamente è stata offerta una taglia di tre milioni di dollari da parte di un altro ayatollah, Hassan Sane’i. Prima dell’attentato di ieri un uomo chiamato Mustafa Mahmoud Mazeh è morto dilaniato da una bomba che avrebbe dovuto ucciderlo, diventando un martire della causa dei fondamentalisti, ed è lunga la scia di sangue generata in occasione della pubblicazione internazionale dei Versi Satanici: il traduttore giapponese, Hitoshi Igarashi, è stato ucciso da emissari del regime iraniano, quello norvegese, William Nygaard, venne ferito da armi da fuoco, e il traduttore italiano, Ettore Capriolo è stato accoltellato all’interno della propria casa. Negli anni in cui viveva sotto protezione in Inghilterra con lo pseudonimo di Joseph Anton, scelto come omaggio ai prediletti Conrad e Chekov, ha ricevuto infinite manifestazioni di solidarietà ma “la vita era diventata un inferno”: nell’occasione in cui mi ha detto dei biglietti di San Valentino, mi ha raccontato tuttavia come abbia vissuto come un momento di liberazione l’invito da parte degli U2 di apparire durante un loro concerto sul palco di Wembley.

Era il 1995 e la sua apparizione a sorpresa venne accolta con un’ovazione interminabile che ancora adesso gli provoca un’emozione che sfiora la commozione. La decisione di trasferirsi in America è avvenuta poco dopo: conosce e depreca la violenza sempre pronta a esplodere nel grande Paese, ma sa anche che nessun luogo garantisce ugualmente la libertà di espressione sigillata in The New Colossus, la poesia di Emma Lazarus scolpita ai piedi della statua della Libertà.

È l’aspetto che ama, di questo Paese, e che ha celebrato anche nei momenti più controversi e bui. In tutti questi anni, non si è mai pentito di quello che ha scritto, anzi lo ha rivendicato con orgoglio, finendo anche nella lista degli obiettivi di Al Qaeda, e per capire il suo atteggiamento, che, sono sicuro, manterrebbe anche adesso, è necessario ricordare la prima intervista che ha concesso alla Bbc, nella quale ha dichiarato “francamente avrei voluto scrivere un libro ancora più critico: sono addolorato per quello che è successo e non è vero che i Versi Satanici sia blasfemo nei confronti dell’Islam: dubito fortemente che Khomeini o chiunque altro in Iran abbia letto il libro tranne degli estratti fuori contesto”. La dichiarazione generò nuove minacce, ma lui rispose di esserne “orgoglioso, allora e sempre”, poi ha rincarato la dose dicendo a proposito dell’Islam che “leader che si comportano in tal modo non possono avere il minimo senso critico”.

La difesa della libertà è diventata da allora un elemento centrale della sua vita pubblica, che lo ha visto impegnarsi come presidente del Pen e quindi schierarsi in prima fila nell’appoggio incondizionato a Charlie Hebdo, polemizzando per questo aspramente con autori quali Joyce Carol Oates, Teju Cole e Junot Diaz, critici riguardo al contenuto della rivista: “Dobbiamo essere tutti dalla loro parte per difendere l’arte della satira, che ha rappresentato sempre un elemento di forza per la libertà contro la tirannia, la disonestà e la stupidità: il totalitarismo religioso ha causato una mutazione mortale nel cuore dell’Islam, e ne vediamo le conseguenze tragiche”.

È ugualmente esemplare quanto avvenne in occasione dell’uscita del film pakistano International Guerrillas, nel quale gli autori ne fanno un ritratto di malvagio nello stile dei film di James Bond, e immaginano che, con la complicità dell’esercito israeliano, sia proprio lui a mettere in crisi il Paese aprendo discoteche e casinò, fin quando non viene ucciso da alcuni eroici combattenti. L’incredibile pellicola, diretta da Jan Mohammed, ebbe un notevole successo in Pakistan, e rischiò di causare un incidente diplomatico con la Gran Bretagna, ma in quell’occasione Rushdie si oppose alla censura e rinunciò a fare causa, spiegando che censurare “questo inetto e perverso pezzo di spazzatura lo avrebbe reso popolarissimo e tutti avrebbero voluto vederlo”. Ama molto il cinema e quando ne abbiamo parlato riusciva a essere divertito dal grottesco orrore di quel film, ma poi, tornando rapidamente serio, ha concluso con un leggero alone di malinconia: “È nostro dovere difendere sempre e comunque il principio di libertà di espressione”.