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di Gian Carlo Caselli

La Stampa, 21 marzo 2023

La giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti di mafia che si celebra ogni 21 marzo (oggi a Milano) ha un nome: don Luigi Ciotti. Che va ringraziato per tutta la sua vita, ma decisiva l’idea di creare “Libera” e di raccogliere le firme (un milione!) per l’approvazione della legge 109/96 sul riutilizzo sociale e istituzionale dei beni mafiosi confiscati.

La galera i mafiosi la sopportano. Ma non digeriscono che si tocchino i piccioli (soldi), motore e sostegno del loro potere. Questa verità elementare è stata “scoperta” soltanto nel 1982, quando l’omicidio di La Torre e ancor più di Dalla Chiesa risvegliarono le coscienze e portarono ad approvare una legge che (insieme all’art. 416 bis, che punisce il fatto stesso di partecipare a un’associazione mafiosa) consentiva sequestro e confisca dei piccioli come per il provento di ogni reato, ma con una novità assoluta: i beni del condannato per associazione mafiosa sono automaticamente confiscati se il mafioso non ne prova la provenienza lecita.

Ma c’era un problema. I beni confiscati restavano inutilizzati, a coprirsi di polvere. E il mafioso poteva sollecitare la “sindrome del faraone”, sostenendo che prima quei beni producevano ricchezza per lui ma pure per gli altri (in realtà briciole per tenerseli buoni). E c’era spazio per la bestemmia che la mafia dà lavoro.

È qui che intervengono Libera e Ciotti, con l’iniziativa che porta alla legge 109/96. Una legge di importanza storica per l’antimafia, grazie alla quale una parte del “mal tolto” che la mafia ha rapinato viene restituito alla collettività perché possa trarne profitto. Così, alla repressione si affianca l’antimafia sociale che offre opportunità di lavoro, creando cittadini titolari di diritti, alleati dello Stato e non più sudditi della mafia. Un’antimafia che parla di dignità e libertà, un baluardo della democrazia contro i ricatti e le umiliazioni dei mafiosi. Un “fiore all’occhiello”, che ci consente di rivendicare che l’Italia è sì, purtroppo, un Paese con problemi di mafia, ma anche e soprattutto il Paese dell’antimafia che fa scuola all’estero.

Ma c’è qualcuno cui queste conquiste nell’interesse del bene comune danno fastidio. È il caso del libro “L’inganno. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene” di Alessandro Barbano, che nei prossimi giorni sarà presentato alla Camera con l’ex ministra Cartabia. In un intervento sul Fatto del 19 marzo, intitolato “Quel libro alla Camera umilia le vittime di mafia”, Nando dalla Chiesa osserva che “la cifra fondamentale (del libro) è l’attacco alla legislazione antimafia e in particolare a Libera”, additata come “concentrato di abusi e nequizie di ogni sorta”. È “lo spirito del tempo” con cui “i conformisti travestiti da voci coraggiose soffiano come un vento sinistro sulle leggi antimafia”. Condivido il giudizio e aggiungo che dello stesso “vento” si nutrono coloro che, a trent’anni dalle stragi, vorrebbero modificare la normativa antimafia, perché la situazione è cambiata e l’emergenza è finita. Questa tesi soffre di un limite culturale: percepire la mafia come un problema esclusivamente di ordine pubblico, cogliendone la pericolosità soltanto quando adotta strategie sanguinarie e trascurando i rischi delle strategie “attendiste”; dimenticando così la straordinaria capacità di condizionamento che di un’associazione criminale ha fatto un vero e proprio sistema di potere.

Sostenere poi che quel che andava bene dopo le stragi del ‘92 oggi va cambiato per ripristinare lo Stato di diritto, oltre che sbagliato è addirittura oltraggioso. Stiamo parlando di un “tridente” antimafia: 1) la fine della impunità mafiosa, sancita nel gennaio ‘92 dalla Cassazione con la conferma definitiva del maxiprocesso di Falcone e Borsellino; 2) la legge sui pentiti del ‘91, fortemente voluta da Falcone e Borsellino; 3) il 41 bis varato con la morte di Falcone, poi insabbiato e approvato solo dopo la morte di Borsellino.

Dunque, per un verso o per l’altro il tridente è “targato” Falcone-Borsellino e intriso del loro sangue. Ecco perché è quasi oltraggioso parlare di necessità di recuperare lo Stato di diritto. Ma andiamo al concreto. Il tridente ha funzionato e funziona. Perché io mafioso, che prima la facevo sempre franca, ora so che posso essere condannato; so anche che mi aspetta un carcere di giusto rigore (non più “aragoste e champagne” come prima del 41 bis); infine so che la legge aiuta chi collabora. Risultato? Il tridente dopo il 1992 produce una slavina di pentiti, collaborazioni preziose che ci salvano dall’abisso in cui Cosa Nostra voleva seppellirci. E oggi? La mafia ha preso e prende duri colpi, ma non è certo finita. Rinunciare a un sistema di difesa collaudato per inseguire le fantasie pseudo garantiste di qualcuno sarebbe follia. Tanto più che il cosiddetto “doppio binario” (di cui 41 bis e legge sui pentiti sono parte) non è contro la Costituzione. Si basa infatti sulla specificità della mafia - riconosciuta dalla Consulta - rispetto a ogni altra organizzazione criminale. Specificità che può appunto giustificare un diverso regime.

Concludo con un altro esempio del “vento” anti-antimafia. Una docente di procedura penale di Palermo pochi giorni fa ha liquidato il maxiprocesso come “un obbrobrio”, perché il processo deve essere il più possibile modellato sulla persona, deve accertare le responsabilità del singolo e non fare vendetta. Senonché, è verità storica che il maxi - capolavoro di Falcone e Borsellino - ha posto fine, nel rispetto assoluto delle regole, alla vergogna della maxi impunità della mafia che da sempre impestava il nostro Paese. Che lo neghi ora una docente, Daniela Chinnici, con un cognome così “impegnativo”, è doppiamente sconvolgente.