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di Margaret Atwood*

Il Dubbio, 9 ottobre 2023

Sembra che io sia una “cattiva femminista”. Posso aggiungere questa alle altre cose di cui sono stata accusata dal 1972, per esempio di aver raggiunto la fama scalando una piramide di teste di uomini decapitati (un giornale di sinistra), di essere una dominatrice decisa a soggiogare gli uomini (uno articolo di destra, corredato da un’illustrazione di me in stivali di pelle con una frusta) e di essere una persona orribile che, con i suoi poteri magici di Strega Bianca, può annichilire chiunque sia critico nei suoi confronti nei ristoranti di Toronto. Sono così spaventosa!

E ora, sembra, sto conducendo una guerra contro le donne, in qualità di misogina-cattiva-femminista a favore dello stupro. Come si presenta una buona femminista agli occhi dei miei accusatori? La mia posizione fondamentale è che le donne sono esseri umani, con l’intera gamma di comportamenti sacri e profani che questo comporta, inclusi quelli criminosi. Non sono angeli, incapaci di fare del male. Se lo fossero, non avremmo bisogno di un sistema legale.

Non credo neanche che le donne siano bambini, incapaci di agire o di prendere decisioni morali. Se lo fossero, saremmo tornati al XIX secolo, e le donne non dovrebbero avere possedimenti, carte di credito, accesso all’educazione superiore, o il controllo sulla propria riproduzione e il diritto al voto. Nel Nord America ci sono potenti gruppi che spingono in questa direzione, ma generalmente non sono considerati femministi. (...) Supponiamo allora che le buone femministe che mi accusano, e la cattiva femminista che sarei io, convergano su questi punti. Su cosa siamo in disaccordo? E come ho fatto a finire nei guai con le buone femministe?

Nel novembre 2016 ho firmato - per questione di principio, come ho firmato numerose petizioni una lettera aperta in cui si chiedeva di ritenere la University of British Columbia responsabile per il suo processo fallito e il trattamento riservato a uno dei suoi ex impiegati, Steven Galloway, già capo del dipartimento di scrittura creativa, così come per il trattamento di coloro che si sono aggiunti come ricorrenti nel caso.

Diversi anni fa, l’università si espose pubblicamente sui media nazionali, prima che ci fosse un’inchiesta e prima ancora che l’accusato potesse conoscere i dettagli dell’accusa nei suoi confronti. Prima che lo scoprisse, Galloway dovette firmare un accordo di riservatezza. L’opinione pubblica - me compresa - si era convinta che quest’uomo fosse un violento stupratore seriale, e chiunque era libero di attaccarlo pubblicamente, dal momento che lui stesso non poteva dire nulla in propria difesa in base all’accordo firmato. Seguì una raffica di invettive. Ma in seguito, dopo un’inchiesta durata mesi, con molte vittime e interrogatori, il giudice ha stabilito che non c’era stata alcuna aggressione sessuale, secondo le dichiarazioni rilasciate da Galloway attraverso i suoi legali. Fu licenziato comunque. E tutti ne sono stati sorpresi, me compresa. (...)

I giustizieri - con una condanna senza processo - arrivano sempre come risposta a una mancanza di giustizia - o il sistema è corrotto, come nella Francia prerivoluzionaria, o non ve n’è alcuno, come nel selvaggio West - e così le persone prendono in mano la situazione. Ma una comprensibile e temporanea giustizia fai da te può trasformarsi in un’abitudine culturale al linciaggio di massa, in cui il sistema giudiziario è gettato dalla finestra per istituire al suo posto strutture di potere extralegali. Cosa Nostra, per dire, cominciò come resistenza alla tirannia politica.

Il MeToo è il sintomo di un sistema legale che si è inceppato. Troppo spesso le donne e chiunque abbia denunciato abusi sessuali non hanno ricevuto la giusta attenzione presso le istituzioni, quindi si è trovato un nuovo strumento: Internet. Le star sono cadute dal loro piedistallo. Questo è stato molto efficace, ed è stato visto come un segnale di risveglio collettivo. Ma cosa accadrà dopo? Il sistema legale può essere aggiustato, o la nostra società potrebbe sbarazzarsene.

*Estratto dell’editoriale pubblicato dalla scrittrice canadese su “The Globe and Mail” il 13 gennaio 2018