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di Francesco Machina Grifeo

Il Sole 24 Ore, 4 novembre 2023

Per la Cassazione, ordinanza n. 30522 depositata oggi, per il suo alto valore civile, più che la veridicità della notizia va valutato il rispetto dei doveri deontologici di lealtà e buona fede da parte del giornalista. Giudicando un caso di supposta diffamazione a mezzo stampa, la Cassazione (ordinanza n. 30522 depositata oggi) traccia un vero e proprio “statuto” del giornalismo d’inchiesta. E lo fa agganciandolo direttamente all’articolo 21 della Costituzione che tutela la libertà di espressione. Il collegamento non è di immediata evidenza ma trova la sua ragione nel “ruolo civile e utile alla vita democratica” del giornalismo investigativo che dunque deve esistere ed essere tutelato anche se non approda ad una verità.

Il suo valore, infatti, spiega la Corte, risiede proprio nella capacità di stimolo nei confronti della collettività, al punto che se ne devono valutare gli esiti “non tanto alla luce dell’attendibilità e della veridicità della notizia, quanto piuttosto dell’avvenuto rispetto da parte del suo autore dei doveri deontologici di lealtà e buona fede”. È la deontologia dunque il vero argine posto dalla Suprema corte ad iniziative diffamatorie o comunque campate in aria che vengono spacciate per inchieste giornalistiche. Alle quali invece, purché ispirate dalla buona fede, viene dato un ampio via libera.

Nel caso specifico la Cassazione ha così ribaltato il giudizio della Corte di appello che aveva condannato il gruppo editoriale Gedi, ed alcuni suoi giornalisti, al risarcimento del danno nei confronti di un comandante dell’aeronautica - qualificato in una serie di articoli come “boiardo dei voli di Stato”, “dinosauro della prima Repubblica” , “funzionario dalla tripla vita e dai tripli privilegi” - perchè avrebbe assicurato volo di Stato facili ai politici, con grande spreco di risorse, utilizzando velivoli della Cai riservati ai Servizi segreti (sulla vicenda vi sono state anche delle indagine della Corte dei conti poi finite nel nulla ed una richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di un ministro mai accordata dal Parlamento).

“L’attenuazione del canone di verità - si legge nella decisione - si giustifica alla luce del principio costituzionale in materia di diritto alla libera manifestazione del pensiero, quando detto giornalismo indichi motivatamente un “sospetto di illeciti” con il suggerimento di una direzione di indagine agli organi inquirenti o una denuncia di situazioni oscure che richiedono interventi amministrativi o normativi per potere essere chiarite, sempre che riguardino temi sociali di interesse generale, alla condizione che “il sospetto e la denuncia” siano esternati sulla base di elementi obiettivi e rilevanti; infatti, nel giornalismo d’inchiesta il sospetto deve mantenere il proprio carattere “propulsivo e induttivo di approfondimento”, essendo autonomo e, di per sé, ontologicamente distinto dalla nozione di attribuzione di un fatto non vero”.

Vengono così parzialmente superati anche i tre caposaldi fissati dalla Cassazione nel lontano 1984 (con la sentenza n. 5259) in materia di libertà di stampa. In essa venivano individuati i tre presupposti in presenza dei quali si può parlare di legittimo esercizio del diritto di cronaca: la verità delle notizie pubblicate, la pertinenza delle stesse e la continenza espressiva. Il giornalismo di inchiesta, spiega la Corte, soggiace per le sue peculiarità, ad una disciplina in parte diversa e meno rigorosa rispetto a quella dettata per la cronaca o la critica giornalistica che sia priva dell’elemento investigativo. “Invero - prosegue l’ordinanza -, opera una meno rigorosa e, comunque, diversa applicazione del requisito dell’attendibilità della fonte, fermi restando i limiti dell’interesse pubblico alla notizia e del linguaggio continente, ispirato ad una correttezza formale dell’esposizione, occorrendo valutare non tanto l’attendibilità e la veridicità della notizia, che il giornalista investigativo ha direttamente acquisito, quanto piuttosto il rispetto dei doveri deontologici di lealtà e buona fede oltre che la maggiore accuratezza possibile posta dal giornalista nella ricerca delle fonti e della loro attendibilità”.

Non passa dunque una lettura restrittiva della inchiesta giornalistica, affermata dalla Corte d’appello, e limitata alle sole ipotesi in cui il giornalista ricerchi ed utilizzi documenti inediti e/o testimonianze di persone o assista di persona a conversazioni o corrispondenza: soltanto in tali casi potendo dirsi che egli abbia svolto un ruolo attivo nell’indagine “a monte” degli articoli. Si deve, invece, affermare, argomenta il Collegio, che si resta nell’ambito del giornalismo d’inchiesta quando il giornalista operi una valutazione complessiva ed autonoma anche di circostanze note e di pubblico dominio, sottoposte a sua autonoma valutazione critica (quali, nella specie, i bilanci della CAI, la dotazione dei velivoli della CAI, pubblicata sul sito dell’Aeronautica militare, gli incarichi del capitano), nell’ottica dell’indagine o dell’inchiesta giornalistica su fatti di rilievo pubblico.

In definitiva per la Suprema corte va afferma il seguente principio di diritto: “In tema di diffamazione a mezzo stampa, il c.d. giornalismo d’inchiesta ricorre anche quando il giornalista non si limiti alla divulgazione della notizia, come nel giornalismo ordinario di informazione, ma provveda egli stesso alla raccolta autonoma e diretta della notizia, tratta da fonti riservate e non, anche documentali e ufficiali, con un lavoro personale di organizzazione, collegamento e valutazione critica, al fine di informare i cittadini su tematiche di interesse pubblico. Esso, proprio per il suo ruolo civile e utile alla vita democratica di una collettività, implica la necessità di valutarne gli esiti, non tanto alla luce dell’attendibilità e della veridicità della notizia, quanto piuttosto dell’avvenuto rispetto da parte del suo autore dei doveri deontologici di lealtà e buona fede”.