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di Desi Bruno e Antonio Pugliese*

Ristretti Orizzonti, 30 novembre 2022

Non è un dato di verità che le vittime di reati “violenti” hanno sempre diritto al patrocinio a spese dello Stato. Come è noto l’art. 76 c. 4 ter DPR 30 maggio 2002 n. 115, modificato dalla legge n. 38/2009, prevede che le persone offese dei reati ivi elencati, e cioè per maltrattamenti in famiglia, pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili, violenza sessuale, atti persecutori, nonché, ove commessi in danno di minori, reati di riduzione in schiavitù, prostituzione minorile, tratta di persone, acquisto e alienazione di schiavi, corruzione di minorenni e adescamento di minorenni, possano essere ammessi al patrocinio a spese dello Stato anche in deroga ai limiti di reddito previsti nello stesso articolo ne consegue che l’istanza di ammissione al gratuito patrocinio necessita esclusivamente dei requisiti di cui all’art. 79) co.1 lett. a e b), e non anche della allegazione di cui all’art.79 lett. c), e cioè di una dichiarazione sostitutiva di certificazione attestante la sussistenza delle condizioni di reddito previste per l’ammissione al beneficio.

Come si ricorderà, la gratuità dell’accesso al patrocinio difensivo fu una scelta del legislatore, volta ad incentivare l’emersione di gravi episodi di violenza sulle donne, spesso in difficoltà nel denunciare alle autorità competenti così anticipando in qualche modo la tutela delle vittime di quei reati poi in gran parte descritti dal cd. “Codice Rosso (L. 69/2019).

Gia’ in passato si era posto il tema della estensione del gratuito patrocinio a tutte le vittime di reato, o quantomeno a quelle vittime di reati sessuali.

I beni giuridici oggetto di tutela hanno suggerito al legislatore di non differenziare l’accesso alla giustizia in base al reddito, quantomeno con riferimento ai reati sopra elencati, scelta non sempre condivisa, ma ribadita di recente dalla Corte Cost. 1/2021: “la ratio della disciplina in esame è rinvenibile in una precisa scelta di indirizzo politico-criminale che ha l’obiettivo di offrire un concreti sostegno alla persona offesa, la cui vulnerabilità è accentuata dalla particolare natura dei reati di cui è vittima, e a incoraggiarla a denunciare e a partecipare attivamente al percorso di emersione della verità. Valutazione che appare del tutto ragionevole e frutto di un non arbitrario esercizio della propria discrezionalità da parte del legislatore.”

Eppure il tema non è risolto, perché l’ambito di applicazione del beneficio viene ad essere talvolta ristretto alla sola costituzione di parte civile nel processo penale e non nelle procedure connesse. Dall’esercizio dell’azione penale nel processo penale possono derivarne condanne al risarcimento dei danni patiti che quelle stesse parti civili possono portare ad esecuzione, talvolta forzata. Ci sono spesso a questo proposito prassi difformi presso i diversi Consigli dell’ordine degli avvocati, nonostante le procedure di recupero del credito derivino proprio dalla sentenza di condanna in sede penale per quel titolo di reato. Per alcuni Consigli dell’Ordine la vittima che intende esercitare in sede civile il proprio diritto al risarcimento deve presentare una nuova istanza al Consiglio dell’Ordine competente per territorio ma, soprattutto, non varrebbe più la deroga ai requisiti di reddito (oggi fissato in Euro 11. 746,68) e pertanto la parte interessata deve produrre documentazione reddituale comprovante il rispetto di quei limiti.

Quest’ultima prassi conduce a volte ad esiti inconciliabili. Laddove la persona offesa di quei reati sia stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato in sede penalistica in deroga ai requisiti di reddito, in quella civilistica si vede alle volte frapposta la necessità di dover provare quel presupposto della non abbienza che giustifica l’ammissione al beneficio nei procedimenti per reati diversi da quelli di cui all’art. 76 c. IV ter DPR 115/2002.

L’art. 75 DPR citato afferma in modo inequivocabile che “l’ammissione è valida per ogni grado e per ogni fase del processo e per tutte le eventuali procedure, derivate e accidentali, comunque connesse”.

Ed è evidente che le procedure di recupero credito sono connesse al processo penale dove quel diritto al risarcimento è stato riconosciuto.

Il Consiglio nazionale forense, di recente, ha confermato la legittimità dell’orientamento più restrittivo, ritenendo che la disposizione di cui all’art. 76 co.4 ter DPR 115/2002 abbia carattere eccezionale rispetto al principio generale e che la norma debba trovare una modifica nel senso indicato, e cioè estendere la deroga al limite di reddito anche nelle procedure diverse dal processo penale dove la vittima del reato deve ricorrere per attuare il diritto al risarcimento del danno. Fino a quel momento, nulla da fare, secondo il CNF.

Dunque, spesso si crea la paradossale situazione di vittime di reati sessuali o comunque che ledono l’integrità fisica e la libertà delle donne destinatarie di una rafforzata tutela in sede penale, ammesse al patrocinio nel processo penale per la costituzione di parte civile (o anche presenti come persone offese ex art. 90 cpp) a prescindere dal reddito, poi trattate in modo differenziato quando si tratta di andare a rendere effettivo il diritto al risarcimento del danno conseguente a reato.

Chi scrive, ma non solo, ritiene che in realtà la legge vigente sia più che sufficiente a garantire alle persone offese dei reati indicati la tutela legale in tutte le procedure connesse, comprese quelle di recupero delle somme a titolo di risarcimento, altrimenti la norma stessa non avrebbe senso alcuno, e che l’art. 75 DPR 115/2002 sia chiaro, ma se dovesse essere al fine necessaria una modifica per rendere effettiva la tutela delle vittime, è il caso di assicurarla, e porre fine ad una parziale e ingiustificata difformità interpretativa.

*Avvocati del Foro di Bologna