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di Giulia Crivellini*

Il Dubbio, 1 novembre 2023

Dai raver ai migranti, il carcere di oggi ci restituisce l’immagine profondamente classista della nostra giustizia. Nato per sostenere le democrazie attraverso un sistema di limiti da incriminazioni ingiuste, pene eccessive, arresti arbitrari, processi sommari e controlli pervasivi delle forze di polizia, nato in definitiva dall’esigenza di tutelare i diritti fondamentali della persona, il garantismo in Italia vive oggi una delle sue più profonde crisi.

Di fronte all’introduzione massiccia di nuovi reati e di aumenti di pena a pioggia operati dal governo Meloni, di fronte al silenzio e all’immobilismo sullo stato delle carceri che ha contraddistinto l’operato, tutt’altro che liberale, del ministro Carlo Nordio, è ancora possibile parlare di garantismo nel nostro paese? Questa è una domanda che da Radicali dovremmo porci e che dovremmo porre al centro del dibattito pubblico.

C’è chi attualmente, nel definirsi “liberale” o nel porsi come forza centrista nel panorama partitico, invoca il garantismo come sistema rigido di limiti alla giurisdizione penale, spogliato, perché non ne necessita, di qualsiasi analisi sociale e di mutamento politico intercorso negli ultimi decenni. Un garantismo spesso ridotto a mera evocazione nostalgica. Eppure sono trascorsi più di trent’anni da quando la destra dei primi processi a Silvio Berlusconi ha iniziato a trasformare paradigmi liberali, come quello del garantismo, in insofferenza per ogni demarcazione e controllo, fino a divenire pretesa di impunità politica ed economica. È da lì che sulla questione giustizia ha preso avvio un’epoca di doppio binario tra i potenti al governo, legittimati e folgorati, come ricorda il giurista Luigi Ferrajoli, “dall’assolutismo del voto di maggioranza”, e “loro”, “gli altri”, i poveri, quelli con cui essere davvero intransigenti.

Che poi null’altro significa se non quelli contro i quali poter creare una nuova legalità fatta di illegalità costituzionale e sopruso: i raver, gli anarchici, gli attivisti per il clima, le persone migranti, le gestanti per altri e altre, i padri e le madri ritenute “non tradizionali”. Ed è da questa dimensione che trae nuova linfa il carattere profondamente classista della nostra giustizia penale, di cui il carcere ci restituisce, come uno specchio, l’immagine. Il carcere sovraffollato delle persone dipendenti da sostanze, dei piccoli spacciatori, delle persone straniere, degli imputati per reati di strada. Da qui un diritto penale che da teorico strumento di eguaglianza sta divenendo nei fatti il luogo della massima disuguaglianza sociale. E la punizione lo strumento per regolare fenomeni sociali.

“Addirittura un avvocato sul barcone?”, commentava poche settimane fa il ministro delle infrastrutture Matteo Salvini a margine di una delle tante sentenze di non convalida del tratte-nimento di migranti presso i Centri di permanenza e rimpatrio. Ciò che un sistema garantista, democratico, giusto, deve assicurare - una pronta difesa a tutti, a partire da chi non può o non riesce ad averne accesso - viene descritto come privilegio. Privilegio e arma da sottrarre ai nemici, cioè agli oppressi, a chi reclama diritti, a chi invoca cambiamenti. Siamo, in sostanza, di fronte al ribaltamento dei cardini della Giustizia, non solo penale ma anche sociale, e del garantismo come radice su cui poggiano le democrazie. E sembra che su questo, dal polo liberale alla sinistra, tutto taccia. Chi lo ha capito bene invece oggi è chi da questa violenza viene colpito ogni giorno.

*Tesoriera Radicali Italiani