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di Mauro Magatti

Corriere della Sera, 13 dicembre 2023

La sinistra si occupa di società in modo rituale, la destra cavalca il malcontento: così cresce l’astensionismo. Il dibattito di questi mesi sul salario minimo ha solo sfiorato la questione delle disuguaglianze sociali che, da molto tempo ormai, non è più un tema capace di incidere sulla agenda politica. La sinistra le richiama in modo più o meno rituale. Ma il problema è che, persa la base dei militanti, i suoi gruppi dirigenti appaiono culturalmente molto lontani dai ceti popolari di oggi, che non conoscono e non capiscono. La frammentazione delle condizioni di lavoro e la penetrazione di nuovi modelli culturali hanno col tempo scavato un fossato che sembra incolmabile. La destra sa cavalcare il malcontento, che trova proprio nell’aumento delle disuguaglianze il suo terreno di coltura, ma non va alla radice del problema. Modi bruschi e linguaggio aggressivo - con malcelati ammiccamenti all’odio e alla violenza - riescono a intercettare il risentimento che ribolle in molte persone. Senza, però, sapere poi dare risposte adeguate. Da qui la fragilità delle democrazie contemporanee, che si manifesta in due modi. Da un lato, con l’aumento dell’astensionismo: non ci si sente rappresentati da nessuno, e perciò non si va più alle urne. Dall’altro, con il continuo riemergere di forze populiste più o meno estremiste. Che qualche volta arrivano ad assumere posizioni anti-sistemiche.

Eppure i dati parlano chiaro. Nel corso degli ultimi trent’anni, le disuguaglianze all’interno dei Paesi avanzati sono costantemente aumentate. Se guardiamo, per esempio, alla concentrazione della ricchezza, in Europa (che rimane il Continente nettamente meno disuguale al mondo) l’1% più ricco dispone del 25% della ricchezza complessiva. Sempre in Europa, la ricchezza cumulata dal 10% più ricco è 66 volte maggiore di quella del 50% più povero. E tra il 1980 e il 2020 il divario tra lo stipendio del dipendente meno pagato e quello dei top manager è cresciuto passando da un massimo di 45 fino a 649 volte. Si potrebbe continuare a lungo. Una tendenza generale che in Italia è addirittura più marcata, tenendo conto che i salari sono stagnanti da molti anni, mentre i profitti e le rendite hanno segnato una crescita costante (anche se poi il Paese “recupera” un suo “equilibrio” attraverso l’enorme sacca della evasione fiscale, che tuttavia crea altri gravi problemi).

A questo quadro si deve poi aggiungere un’ulteriore aggravante: il livello di indebitamento pubblico dei Paesi avanzati - compresi quelli europei - è molto cresciuto negli anni, raggiungendo livelli record. Il rapporto debito pubblico/Pil per l’insieme dei Paesi avanzati (sceso in media attorno al 30% negli anni ‘70) è tornato a crescere senza interruzione dagli anni ‘80, fino a raggiungere una media del 110%, pari solo ai livelli toccati durante la Seconda guerra mondiale. Col problema che la maggiore spesa pubblica incide poco sulla distribuzione del reddito. È vero, per esempio, che in Europa le tasse riducono il divario di reddito tra il 10% più ricco e il 50% più povero di circa il 30%, ma senza riuscire a invertire la tendenza sopra descritta.

Ciò significa che la spesa pubblica ha cercato di mettere pezze, piuttosto che guidare i processi: la creazione del consenso di breve periodo dà un tornaconto elettorale maggiore rispetto allo sforzo di costruzione di un equilibrio tra crescita economica e integrazione sociale.

È in questa situazione che ora stiamo cominciando ad affrontare una nuova stagione economica, che si annuncia assai incerta. Gli assetti della globalizzazione sono saltati; la crescita economica non è più scontata; l’instabilità cresce, generando forte instabilità (come nel caso dell’inflazione indotta dalla tempesta sui mercati energetici causata dalla guerra in Ucraina). Mentre davanti a noi vi sono due montagne da scalare, come la costosissima e difficilissima transizione ecologica e i prevedibili effetti sul mercato del lavoro associati con la fase matura della digitalizzazione (che verosimilmente apporterà benefici nel medio-lungo termine, ma che nel percorso di trasformazione comporterà costi sociali non trascurabili).

Siamo dunque in un passaggio delicato, in cui la politica è chiamata a ridefinire le proprie cornici di riferimento. Né la lettura che viene da destra - ormai lontana dalle posizioni neoliberiste ma ancora incerta sull’atteggiamento da tenere rispetto alle spinte populiste - né quella che viene da sinistra - paladina dei diritti civili e della sostenibilità, ma in difficoltà nel leggere le trasformazioni economiche e sociali e nello spiegare come rendere compatibile l’innovazione con la giustizia sociale - sono in grado di dare risposte soddisfacenti all’insieme dei problemi che dobbiamo affrontare. E che le persone vivono sulla loro pelle. A giugno si terranno le elezioni europee. Si può sperare che il dibattito politico nell’intero Continente faccia un passo in avanti, aggiornando le proprie mappe alla situazione reale della società e dell’economia. Le opportunità sono grandi. Ma altrettanto lo sono i rischi.