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di Vladimiro Zagrebelsky

La Stampa, 13 settembre 2023

La richiesta del pubblico ministero di assoluzione di un immigrato proveniente dal Bangladesh e imputato di maltrattamenti nei confronti della moglie della stessa origine etnica, ha dato origine a numerosi commenti critici, espressione di indignazione per la concezione del rapporto uomo-donna propria di quella vicenda. L’indignazione che percorre i vari commenti ha certo ragion d’essere, ma non esaurisce gli aspetti rilevanti del tema, quando lo si discuta con riferimento ad un singolo episodio oggetto di processo penale: quando cioè, condannato il fenomeno generale concernente nel tempo e nello spazio la soggezione della donna, ci si chieda se debba essere condannata anche la persona di quell’imputato per quella condotta specifica. Nel diritto penale ha essenziale rilevanza il profilo soggettivo della condotta considerata: la conoscenza o conoscibilità della norma che la punisce, il dolo o la colpa nel compierla. Si tratta di questioni legate al caso concreto, cosicché, che l’imputato venga condannato oppure no, sarebbe azzardato trarne in generale che si possa in Italia o non si possa “picchiare la moglie”. La risposta è nella legge: si tratta di un delitto, qualunque sia la sentenza che riguarderà quell’imputato. In ogni caso la tesi del pubblico ministero si riferisce ad un dibattito che da lungo tempo di svolge, non solo in Italia: meno nella giurisprudenza e più nella dottrina penalistica. Essa riguarda i reati culturalmente motivati. Il terreno dei rapporti familiari e della posizione della donna è certo frequentemente messo in causa, ma non è il solo. È di una trentina di anni fa la sentenza del pretore di Torino che respinse la tesi della difesa di imputati Rom, che avevano mandato alcuni loro bambini ad accattonare a piedi scalzi nel traffico: si sosteneva si trattasse di una condotta tradizionale e identitaria di una popolazione nomade. Condannarla avrebbe significato commettere un “genocidio culturale”. Il giudice - il colto e sensibile pretore Amos Pignatelli - fu tra i primi in Italia a dover affrontare il problema e lo risolse con approfondita motivazione sulla base dei fondamenti della Costituzione. Lo ricordo ora per avvertire che il tema si può presentare variamente e non riguarda solo imputati immigrati. In fondo il cosiddetto delitto d’onore, trattato debolmente in Italia fino al 1981, rifletteva aspetti comuni a quelli propri del reato culturalmente motivato. E la sempre maggior presenza di “culture” diverse conviventi sul territorio rende talora difficile identificare la “cultura dominante”. La questione poi riguarda anche la cultura propria del Paese di origine del migrante, oltre al problema della cultura propria dell’imputato e della vittima.

In Italia più che altrove vivono tradizioni, culture, valori, religioni, stili di vita diversi, radicati nella storia ed anzi nelle storie, al plurale, di popolazioni e territori. La convivenza spesso non è facile, ma l’ormai lunga pratica dell’unità e l’esperienza della diversità, hanno sviluppato una tolleranza civile. Ma cosa avviene quando una società già pluralistica si articola ulteriormente, ricevendo persone e comunità portatrici di modi di vita, abitudini e soprattutto, convinzioni anche religiose che hanno aspetti di radicale diversità e opposizione? Accade talora che ciò che in Italia, società di arrivo, è vietato dalla legge penale, nella società da cui partono quelle persone o comunità sia invece permesso o addirittura obbligatorio. Si tratta di casi di doppia e confliggente fedeltà. Ma in ogni società - pur pluralistica - esiste un nocciolo duro di “cultura” largamente condivisa. I problemi sorgono quindi sui bordi del nocciolo duro, nei casi dubbi. La distinzione dei reati in “reati naturali” e “reati artificiali” è utile, anche se non netta. Vi è una vicenda che merita di essere ricordata. In Inghilterra S.W. aveva commesso violenza carnale sulla moglie. Pretendeva che una tale condotta non fosse punibile e si appoggiava su una antica giurisprudenza che era in tale senso. Non c’erano sentenze recenti che la confermassero, ma neanche sentenze che la smentissero. In un sistema di common law si poteva dire che tale era la “legge”. Le Corti britanniche però condannarono S.W. Lo sviluppo della cultura della società indicava che la causa di non punibilità, un tempo riconosciuta, non aveva più ragion d’essere e S.W. era in grado di rendersi conto del contesto culturale attuale. Il fatto che S.W. vivesse nella “cultura” di un secolo prima non giustificava l’esclusione della sua punibilità. La Corte europea dei diritti umani nel 1985 ha seguito il ragionamento delle Corti britanniche, appoggiandosi sul fatto che si trattava di “reato naturale”. Ma naturale oggi, non ieri.

La questione generale riguarda chi è portatore di una “altra cultura”: “altra” rispetto a quella dominante ora nel territorio. E si discute se in certi casi estremi l’estraneo (il “rusticus” come talora si è detto nella dottrina penalistica) possa essere punito anche se ignora la legge del luogo. Oppure, più probabilmente, ci si chiede se e come nei suoi confronti possano essere considerati i motivi a delinquere e le circostanze attenuanti o aggravanti, per definire la pena, tra il minimo e il massimo previsto dalla legge. La risposta è difficile, perché, se si riconosce una qualche attenuazione di responsabilità per chi dalla cultura tradizionale in cui si è formato è stato spinto a delinquere, per converso bisognerebbe considerare che proprio quei motivi lo rendono pericoloso e probabile futuro recidivo. Sul dilemma la legge non dà risposta univoca.