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di Simona Musco

Il Dubbio, 16 marzo 2024

Per il giudice Gallo il decreto produce “una risposta giurisdizionale di tipo sanzionatorio piuttosto che di tipo educativo”, in contrasto con la Costituzione. Il decreto Caivano “solleva significativi dubbi di costituzionalità”. A scriverlo è Giovanni Gallo, giudice per le indagini preliminari del Tribunale per i minori di Trento, presieduto da Giuseppe Spadaro. Che con un’ordinanza articolata chiede alla Consulta di valutare la costituzionalità dell’articolo 27 bis - disposizioni sul percorso di rieducazione del minore - nella misura in cui prevede, per il minore sottoposto a procedimento penale, “una risposta giurisdizionale di tipo sanzionatorio piuttosto che di tipo educativo, in contrasto con quanto richiesto dall’articolo 31 comma II Costituzione, così come sistematicamente interpretato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui qualsiasi trattamento punitivo nei confronti di un minore è ammesso solo e solo se è sorretto, animato e orientato da fini educativi”.

Parole che rischiano di frantumare il decreto Caivano, pensato dal governo come risposta a gravi eventi di cronaca che hanno avuto come protagonisti dei minori, e che rischia, secondo l’ordinanza firmata da Gallo, di infrangersi contro i principi costituzionali, puntando solo alla punizione e non all’aiuto dei giovani. Nel caso analizzato dall’ordinanza che ha chiesto l’intervento della Consulta, la difesa del minore - accusato di aver minacciato con un coltello da cucina il padre - aveva chiesto al pm minorile una proroga del termine per il deposito del programma rieducativo a cui sottoporre il giovane, per consentire di ottenere maggiori informazioni sulla sua situazione e creare un percorso adatto alle specifiche esigenze personali e familiari. Ovvero per rispondere al disagio che lo aveva portato a minacciare il padre. Il pm ha però negato tale possibilità, in quanto non prevista dalla norma. Una situazione che, scrive il gip, rende possibile solo valutare la proporzionalità tra il contenuto del programma rieducativo proposto e il reato contestato, in una “logica esclusivamente retributiva, anziché educativa”, contraria “agli assiomi basilari del processo minorile”. Una criticità, sottolinea Gallo, intrinseca alla norma, che rischia di determinare “possibili disparità di trattamento”.

Il decreto si basa su una irragionevolezza di fondo, impedendo un adeguato approfondimento informativo e, quindi, “un’effettiva presa in carico del minore e dei suoi bisogni educativi”. E risulta ancora più irragionevole se si pensa che l’omologo istituto previsto per gli adulti prevede “un’articolata e puntuale disciplina volta a un’effettiva presa in carico del soggetto”. Perché non prevedere la stessa cautela per i minori, la cui personalità in via di sviluppo “necessita di un’attenzione maggiorata e non minorata rispetto a quella riservata a un soggetto adulto”? La cosa ha senso solo se la prospettiva è quella “preventiva e retributiva”, ma risulta sbagliata se l’intento è quello di “porre al centro il minore e di cogliere le cause esogene ed endogene dell’atto deviante”. Dietro alla commissione di un reato, infatti, “possono celarsi significativi bisogni educativi, i quali esulano dall’attività di indagine penale propriamente intesa”.

Ed è proprio per tale motivo, prosegue Gallo, che è necessario un approfondimento: solo in questo modo, infatti, “il procedimento penale minorile diviene lo strumento per offrire al minore un’occasione per emanciparsi dalle cause che hanno indotto l’atto deviante e solo così risultano pienamente attuati, in tutta la loro forza semantica, i precipitati costituzionali secondo cui la Repubblica protegge la gioventù ed è suo compito rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.

La norma sembra però avere come obiettivo la celerità e la razionalizzazione del processo minorile, ottenibili solo comprimendo, di fatto, “quegli strumenti, propri di un sapere scientifico-pedagogico, necessari ad assicurare quell’approccio personalistico indispensabile per garantire al trattamento giurisdizionale minorile la sua finalità educativa”. Con riferimento alla prima fase del procedimento, la redazione del progetto, “l’assenza di un approfondimento sulla situazione del minore preclude la possibilità di redigere un programma personalizzato, rispettoso delle specifiche esigenze pedagogico-rieducative del minore”. La raccolta di informazioni sarebbe, inoltre, resa difficile dai tempi ristretti previsti dal legislatore, che impone un termine di 60 giorni per la presentazione di tale progetto, le cui attività “saranno individuate secondo meccaniche seriali a discapito dei reconditi bisogni educativi del minore”.

Per quanto riguarda le altre due fasi del procedimento - l’ammissione e la valutazione conclusiva del progetto -, “entrambe sono demandate al giudice monocratico per le indagini preliminari e non al giudice collegiale”, che prevede la presenza, accanto al giudice togato, “di un uomo e una donna esperti in ambito psico-pedagogico”. Tale scelta, scrive ancora Gallo, “riduce significativamente la possibilità di procedere mediante un giudizio a base personalistica”. E per quanto riguarda il giudizio, “non è specificato sulla base di quali elementi informativi debba essere svolto”, dal momento “che non è previsto l’intervento dei servizi minorili dell’amministrazione della giustizia al termine del percorso”.

La loro assenza impedisce, di fatto, “di tenere in debita considerazione l’incidenza che l’espletamento del progetto ha avuto sul percorso evolutivo del minore in relazione ai profili di crescita, maturità e responsabilizzazione - conclude Gallo -. In assenza, ancora una volta, di adeguati elementi informativi, l’emissione o meno della sentenza di non luogo a procedere per estinzione del reato dipenderà dall’adempimento o meno da parte dell’imputato degli impegni presi a prescindere della valenza educativa che possono aver assunto nel suo percorso di crescita”.