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di Maurizio Porro

Corriere della Sera, 24 dicembre 2023

Porta a Lugano (e poi in tutt’Italia) lo spettacolo nel quale interpreta la cantante, riproponendo il suo ultimo concerto del 1978. Una performance nata in carcere a Messina. “Nei suoi brani troviamo i nascondigli dell’anima”. Sono praticamente trent’anni che Tindaro Granata, uno dei talenti più vivi e originali del teatro di oggi, rabdomante della nuova drammaturgia, sta provando Vorrei una voce, titolo dello spettacolo, prodotto dal Lac di Lugano, che giovedì 11 gennaio debutterà nella città ticinese.

Non c’è bisogno di fare il giro dell’oca, il titolo porta subito a Mina e alla canzone che ha popolato delusioni e illusioni di ogni ordine e grado, La voce del silenzio di Paolo Limiti, Mogol ed Elio Isola (brano che andò a Sanremo nel 1968). Il piccolo Tindaro, nella sua cameretta, a dieci anni, col mangiadischi, già imitava e cantava in playback i successi di Mina: una voce, un mito, un modo di esprimere i sogni, un trampolino di immaginazione e di chissà quali storie d’amore.

“Andiamo con ordine”, avverte Granata, nato a Tindari, dove d’estate organizza un festival nel teatro antico e che da anni gira l’Italia con uno spettacolo amarcord familiare, Antropolaroid, 400 repliche. “Nel 2019 insegnavo teatro alle undici detenute del carcere femminile di alta sicurezza di Messina, gestito in modo virtuoso da Angela Sciavicco.

Mi chiedevo come raggiungere la loro femminilità reclusa. Ho pensato a Mina, mi sono truccato gli occhi come lei, ho incominciato a parlarne. Tutte la conoscevano e si identificavano nelle sue canzoni. Allora ho proposto di mettere in scena in playback con le carcerate nel teatrino da 90 posti del carcere, grazie all’Associazione Darteventi diretta da Daniela Ursino, l’ultimo concerto live della cantante, quello della Bussola, addì 23 agosto 1978. Entusiasmo generale di familiari e magistrati perché quelle canzoni erano il grimaldello per scoprire le loro storie nascoste ma senza parlare, affidando al playback sogni infranti, errori, drammi, tutti sul conto della musica di Mina e alla sua femminilità. Una replica sola, il 14 dicembre 2019, una serata indimenticabile con fiumi di lacrime, poi tutto si è fermato per la pandemia ma io tenevo nel cassetto un breve trailer dello show”.

Secondo tempo: Granata, che intanto produce, scrive, dirige una scuola di teatro a Milano, Proxima Res, recita La pulce nell’orecchio di Georges Feydeau in una gran caratterizzazione chapliniana, ha sempre in testa quelle detenute di Messina che cantavano La città vuota o Io vivrò. “Così - racconta a “la Lettura” - mandai il trailer a Massimiliano Pani, che mi ha risposto accettando con gioia l’idea di rifare quel concerto di sua madre a teatro con un io narrante che racconta l’esperienza nel carcere parlando di queste cinque donne che faccio entrare in scena, intervallando le loro storie con canzoni di Mina”.

In scena, aggiunge, “sono sempre io, con la massima libertà espressiva: io, non più identificabile come uomo o donna. Solo il rimmel sugli occhi. Parlo di queste donne e in playback canto come Mina seguendo la traccia dell’ultimo show in Versilia, dopo aver studiato ogni movimento labiale. È stata una di loro, Vanessa, a dirmi: se vuoi mettere in scena noi, solo tu puoi rappresentarci”.

Dopo l’emozione di aver varcato con alta pressione la soglia della casa di Mina, Tindaro si è buttato nell’impresa, non ha chiesto di incontrare la grande cantante che nel marzo prossimo sarà ottantaquattrenne: “Mi sembrava già molto essere nel suo salotto, se sarà destino vedremo. Il figlio mi ha parlato della curiosità attiva di sua madre e mi ha concesso di cantare in playback, oltre a La voce del silenzio, anche L’importante è finire, Ancora ancora ancora, Città vuota, Caruso di Lucio Dalla e Io vivrò di Mogol e Lucio Battisti, oltre a nove minuti di un medley finale con i suoi pezzi più famosi che lei regalò al pubblico quella famosa sera. Quindi sono tutti audio, ma ho studiato bene la mimesi vocale e dietro apparirà la foto di Mina e anche un breve video”.

Che cosa lega il siciliano Tindaro, la “sua” Mina e le detenute di Messina? “Il fatto che il dolore inizia quando tu smetti di sognare e dentro allora ti muore qualcosa. Quando arrivai a Messina ero anch’io in questa condizione sofferente, in crisi con il lavoro di teatro che pure andava bene, in crisi con gli amici, in sofferenza generale con il mondo. Mi sentivo io stesso in carcere, mi ero arrestato da solo perché avevo smesso di credere nei sogni e non ascoltavo una certa voce che dovremmo sempre inseguire, l’istinto. Grazie a queste undici donne, espressione di un mondo femminile ora senza uscita, io mi sono ritrovato. E con lo spettacolo racconto questi pezzi di esistenze che si riconoscono in una nota, in un refrain, in un acuto. È la prima volta che Mina viene intesa non solo come grande interprete, ma con tutto il suo mondo interiore. Certo, lei non c’è, ma in qualche modo è come se con questo grande omaggio ritornasse”.

Neanche le detenute ci sono, se non, ma sfocate e da lontano per regolamento carcerario, in un video finale di 4 minuti, al termine di questo grande processo di riunificazione: “Perché io che narro mi identifico con tutte le storie delle donne, ma raccontando le storie di queste amiche voglio abbattere i pregiudizi: non sono extraterrestri, le donne carcerate hanno amici e famiglie, sono nel nostro stesso contesto, potrebbero essere mie zie o cognate, non sono mostri ma persone che soffrono della loro detenzione, non hanno possibilità di esprimere la loro femminilità, i misteri del loro subconscio. Bisogna trovare, ovunque siano, anche in una canzone malinconica di Mina, i nascondigli dell’anima”.