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di Giovanni Guzzetta

Il Riformista, 2 giugno 2022

L’invito all’astensione, l’evocazione della complessità dei temi, l’allusione a disegni inconfessabili di cui i quesiti sarebbero solo l’esca per abbindolare gli “utili idioti”, calzano perfettamente per evitare di rimettere in discussione gli equilibri consolidati.

Il referendum non viene visto come un tentativo, giusto o sbagliato che sia, di fronteggiare una crisi che tutti vedono e denunciano, ma come il redde rationem, la resa dei conti tra politica e potere giudiziario. Nel poco tempo che resta, sforziamoci per far capire che, ancora una volta, si finisce per votare un referendum senza che si sia potuto sviluppare il dibattito che il tema merita. Il silenzio oggettivamente colpevole dei mezzi di informazione, che hanno sinora dedicato lo “zero virgola” del tempo (dati Agcom) a questo appuntamento, concorre a schiacciare il dibattito sulle semplificazioni asfittiche delle quali siamo ormai tutti vittime da decenni.

E così il referendum non viene più visto come un tentativo, giusto o sbagliato che sia, di fronteggiare una crisi che, dal Presidente della Repubblica in giù, tutti vedono e denunciano, ma come il redde rationem, la resa dei conti nel conflitto tra politica e magistratura. La questione diviene dunque quella di schierarsi non a favore o contro una proposta, ma a favore o contro un intero corpo, i magistrati. Dagli uni visti come l’avamposto millenaristico contro la corruzione di un mondo in mano alle forze oscure del male e, dagli altri, come un centro di potere fuori controllo corporativo, mascherato con le vesti del giustiziere.

Del resto, nello “zero virgola” del tempo, c’è solo lo spazio per gli opposti schematismi. E così il fatto che ci sia un numero sorprendentemente alto di pubblici ministeri che si sono buttati a capofitto nella campagna per il NO (i giudici sono infinitamente di meno) costituisce una prova sia per gli uni che per gli altri delle proprie ragioni. Per gli uni, segno che la magistratura italiana è ormai in mano alle procure, che si schierano apertamente a difesa di interessi di casta presentati come interessi di tutti. Per gli altri, invece, segno del dovere morale e civile di impedire che ai cittadini sia sottratto lo strumento per tutelare interessi collettivi, altrimenti saccheggiati dalle forze oscure di cui sopra. Forze oscure che non esiterebbero a ridurre la protezione della sicurezza delle vittime dei reati più efferati (magari modificando le norme sulla custodia cautelare) pur di ottenere il conseguimento del vero obiettivo: mettere la museruola alla giustizia ripristinando il dominio della politica corrotta.

La cosa grave non è solo che questo frontismo ideologico diventa, di fatto, un modo per eludere l’esame concreto delle questioni, che peraltro, sempre in quello “zero virgola” di tempo, difficilmente potrebbero essere approfondite. La cosa grave è che, in questo modo, i temi della giustizia appaiono ai cittadini, “cosa loro”, della politica e della magistratura, qualcosa che, in fin dei conti, non li riguarda.

Del resto, si potrebbe dire, appartiene al buon senso di ciascuno affidarsi all’antico detto “male non fare, paura non avere”. Perché una persona per bene dovrebbe occuparsi della giustizia? Il problema però è proprio questo: la radice dell’attuale crisi è che, quel detto, è quotidianamente tradito. E per quanto possa apparire inconcepibile e contro natura che la giustizia possa produrre ingiustizia, per quanto sia tanto inconcepibile che la nostra mente, con un comprensibile riflesso psicologico, vuole negarlo, purtroppo accade. Lo dimostrano quei tre cittadini innocenti che ogni giorno vengono sottoposti a carcerazione preventiva. Se così non fosse, non ci sarebbe stato bisogno di millenni di riflessioni e di tentativi per ridurre il rischio di una giustizia “ingiusta”.

La combinazione di questi due elementi (la riduzione dei problemi a “cosa loro” e la negazione istintiva della possibilità stessa dell’ingiustizia della giustizia per coloro che non l’abbiano sperimentato sulla propria pelle) rende molto efficace l’utilizzo di argomenti a effetto per dissuadere dal partecipare o per evocare minacce delle forze occulte, disposte persino a sacrificare la sicurezza dei cittadini per perseguire i propri obiettivi di potere.

Così l’invito all’astensione, l’evocazione della complessità dei quesiti (perché, si sa, le cose complesse sono di per sé sospette), l’allusione a disegni inconfessabili di cui i referendum sarebbero solo l’esca per abbindolare gli “utili idioti” (i cittadini), calzano perfettamente per evitare di rimettere in discussione gli equilibri consolidati. Ci sono due risposte che si possono dare per arginare questa deriva. La prima è quella di continuare cocciutamente a cercare di discutere nel merito, disinnescando l’ipoteca ideologica e lasciando che ognuno si formi la propria opinione. Operazione difficilissima, ma che bisogna continuare a perseguire anche in quello “zero virgola” che si ha a disposizione.

La seconda, invece, consiste nello smontare l’impalcatura ideologica, contestando in radice la premessa di partenza: che questo sia un referendum in cui si chiede di schierarsi pro o contro la magistratura. Per la semplice ragione, anch’essa però contrastata da una retorica tanto falsa quanto radicata, che non solo, com’è ovvio, ci sono magistrati e magistrati, successi ed errori, eccellenze e miserie nella magistratura, come in ogni campo dell’esperienza umana. Ma soprattutto che ci sono visioni diverse dei problemi e delle soluzioni dentro la stessa magistratura. E che l’unanimismo è una facciata che si può sgretolare (si veda l’insuccesso evidente, e presto dimenticato, dello sciopero dei magistrati), malgrado, in astratto, tra i rischi della corporativizzazione (dei magistrati, come di qualsiasi altra categoria) ci sia anche quello di un possibile conformismo strisciante, motivato dal quieto vivere.

E invece bisogna non stancarsi di ricordare che l’immagine di unanimismo è, da sempre, un modo per banalizzare gli scontri e per praticare la logica - schiacciante e potente - di amico-nemico. La realtà però non è granitica, perché accanto ai Davigo che ieri sulle colonne de Il Fatto non esitava a definire “disgustoso” uno dei quesiti referendari e che in altre occasioni dichiarava che “il fatto di essere assolti non significa che siano tutti innocenti, anzi…”, ci sono anche altri magistrati, come Giovanni Falcone, il quale (lo ricordava il Dubbio di ieri pubblicando un testo da “La posta in gioco. Interventi e proposte per la lotta alla mafia”) auspicava che si giungesse alla separazione funzionale tra pubblico ministero e giudice. Si tratta di differenze che non attengono solo ai singoli problemi, ma anche a visioni culturali dell’amministrazione della giustizia.

Un magistrato come Falcone non avrebbe mai dichiarato che “il fatto di essere assolti non significa che siano tutti innocenti”, non perché sul piano empirico non possa accadere che un colpevole la faccia franca, ma perché la civiltà giuridica esclude che spetti al magistrato dichiarare o semplicemente alludere a una verità diversa da quella processuale. Anche quando ciò gli possa dare notorietà e successo di immagine e di pubblico. Il passaggio dal giudice del processo a giudice della verità è ciò che distingue due diverse visioni della giustizia. Visioni che si rispecchiano anche nel dibattito su questi referendum.