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di Alberto Cisterna

Il Dubbio, 22 giugno 2023

Il libro di Veronica Manca (Legislazione antimafia, Giuffrè, 2023) già nel suo titolo rende evidente che esiste un ordito di disposizioni che prendono in considerazione il contrasto alla criminalità organizzata in ogni sua più minuta piega e in ogni singolo risvolto. E’ un mondo saturo di norme, denso di precetti quello che la Manca descrive in cui spesso la giurisprudenza ha tracciato un solco che, poi, il legislatore ha irrobustito e protetto con il rigore della legge. Nessun altro settore dell’ordinamento penale, come quello antimafia e della prevenzione in particolare, risente di influssi e sollecitazioni direttamente elaborati nell’alambicco delle aule di giustizia e, poi, trasfusi nel Codice antimafia del 2010 o disseminati in altri precetti che lo hanno preceduto o integrato.

Il primo capitolo del libro merita in assoluto di essere non solo letto, ma anche condiviso; sono considerazioni che andrebbero praticamente poste al centro di un dibattito ancora latente, carbonaro, silenzioso, quasi intimidito dalla sola possibilità che quanti sollevino dubbi o manifestino perplessità possano essere travolti dall’accusa di collateralismo o di cedevolezza con le mafie. Ha ragione la Manca quando scrive che lo stato d’eccezione (o d’emergenza) che sorregge la legislazione antimafia ha richiesto, ben oltre la mera narrazione degli eventi, la loro costante drammatizzazione, in un circuito comunicativo che ha imposto una linea del rigore che talvolta sfiora l’irragionevolezza e che, soprattutto, ripudia qualunque confronto con la mutevolezza e la dinamicità della questione criminale in Italia.

Il punto vero è che siamo al cospetto di una legislazione consolidatasi praticamente dal 1982 al 1992, in piena aggressione mafiosa, e che a distanza di decenni dovrebbe pur prendere coscienza che i mezzi repressivi approntati quaranta anni or sono appaiono armi spuntate, minutaglie persecutorie, plessi inefficaci. Il succedersi di assoluzioni, i sequestri che naufragano, le vite dissipate non possono essere considerate una sorta di inevitabili danni collaterali di una battaglia che non ammette declinazioni diverse.

Eppure. Eppure alla falange che ogni giorno misura, potenziometro alla mano, ogni pur minimo “calo di tensione” nella lotta alla mafia non passa per la mente che il reato di associazione segreta vede dal 1982 inchiodata la pena a un minimo che non consente neppure un’intercettazione e forse neppure l’acquisizione di un tabulato. Ma come dubitare che negli anfratti oscuri delle consorterie e degli incappucciati si nascondano quelle falangi che puntano alla conquista del potere, quando non alla sua mera conservazione. La relazione dell’ultima Commissione parlamentare antimafia lo ha detto a chiare lettere: “urge una riforma con una nuova nozione di associazione segreta” e l’articolo 1 della Legge Anselmi si staglia chiaro nel delineare quale sia la vera minaccia - ora come allora in piena P2 - al funzionamento della democrazia: “si considerano associazioni segrete quelle che, anche all’interno di associazioni palesi, occultando la loro esistenza ovvero tenendo segrete congiuntamente finalità e attività sociali ovvero rendendo sconosciuti, in tutto od in parte ed anche reciprocamente, i soci, svolgono attività diretta ad interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali, di amministrazioni pubbliche, anche ad ordinamento autonomo, di enti pubblici anche economici, nonché di servizi pubblici essenziali di interesse nazionale”. E nel mentre si abbaia alla luna evocando generiche e immaginifiche mire mafiose sui fondi del Pnrr, tutto tace sul fronte delle consorterie dei colletti bianchi in cui la mafia da tempo ha commisto i propri interessi e annacquato la propria, riconquistata, agibilità sociale e politica.

Ecco il libro della Manca muove da questo lucida consapevolezza; da questa attenzione alle pieghe più minute della legislazione antimafia di cui coglie gli indubbi pregi, ma anche gli alti costi in termini di certezza del diritto, di proporzionalità delle sanzioni, di mitezza nella risposta repressiva. Un arcipelago di norme che non può non essere puntualmente esaminato e messo sotto osservazione per cogliere anche la disarmonia di taluni meccanismi e l’antistoricità di alcuni approcci. Si pensi per tutti alle interdittive antimafia che stanno alla periferia della legislazione esaminata nel volume della Manca, ma che rivelano una concezione quasi arcaica dell’impresa mafiosa con grumi di parentele e di rapporti di frequentazione che hanno perso molto della loro originaria valenza predittiva e che pure costituiscono il nocciolo duro di quella “repressione amministrativa” che talvolta nuoce ingiustamente.

Non tutto, ovviamente, merita una revisione critica e non tutto resta immobile. La Manca annovera con precisione l’importanza degli interventi della Corte costituzionale in materia di ergastolo ostativo o i revirement significativi della Cassazione in tema di riti di affiliazione, senza dimenticare la rilevanza delle decisioni della Corte europea di Strasburgo sul versante del concorso esterno o del procedimento di prevenzione. Certo occorre scrollarsi di dosso la patina mediatica che rende scivoloso l’approccio alla legislazione antimafia e approcciare le norme nel loro effettivo contenuto e nella loro concreta efficacia. La Manca ci aiuta e parecchio.