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di Sandra Figliuolo

palermotoday.it, 3 gennaio 2024

Fu arrestato a dicembre del 1994 e da allora ha trascorso esattamente trent’anni al 41 bis. E per lo storico boss di Passo di Rigano Michelangelo La Barbera, 80 anni, condannato a diversi ergastoli per le stragi di Capaci e via D’Amelio, ma anche per una serie di omicidi, come quelli del capitano dei carabinieri Mario D’Aleo e degli appuntati Giuseppe Bommarito e Pietro Morici e dell’europarlamentare della Democrazia Cristiana Salvo Lima, nonostante i ripetuti ricorsi contro le proroghe del carcere duro disposte dal ministero della Giustizia, non sembrano esserci spiragli di lasciare lo speciale regime detentivo. L’ultima decisione al riguardo è quella della prima sezione della Cassazione, depositata in questi giorni, che ha rigettato l’istanza del mafioso.

La Barbera aveva impugnato davanti alla Suprema Corte l’ordinanza del tribunale di Sorveglianza di Roma del 16 marzo dell’anno scorso contro la proroga del 41 bis disposta dal ministero il 12 aprile del 2022, ma il collegio presieduto da Vito Di Nicola ha sancito la correttezza della decisione precedente, secondo cui “nonostante sia detenuto da molto tempo, La Barbera è capace di mantenere il controllo del territorio attraverso uomini di fiducia e suoi famigliari ed ha la capacità di mantenere un ruolo di grande rilevanza all’interno di Cosa nostra”.

Nella sentenza, la Cassazione rimarca come “il tribunale ha sottolineato che i motivi di reclamo, quanto all’assenza di elementi nuovi da cui desumere la pericolosità del reclamante e la sua capacità di ripristinare i contatti con il clan, sono già stati valutati approfonditamente in passato, a seguito di precedenti reclami dal contenuto analogo, in particolare con l’ordinanza del medesimo tribunale di Sorveglianza del 29 aprile 2021” e “il mero decorso del tempo non fa venir meno le ragioni che giustificano il regime differenziato”. Inoltre “il ruolo di primo piano assunto dal detenuto nell’ambito di Cosa nostra - scrivono ancora i giudici - la sua elevatissima pericolosità sociale, lo spessore criminale desunto dai delitti efferati commessi, l’assenza di qualunque indizio di dissociazione giustificano, tutti, la proroga del regime differenziato”.

La difesa del mafioso aveva invece messo in evidenza proprio come La Barbera sia detenuto ininterrottamente dal 1994 e come non sarebbero emersi elementi che dimostrano la sua capacità di mantenere i collegamenti con l’associazione, così “le affermazioni dell’ordinanza - sosteneva la difesa - sono quindi mere espressioni di stile, non fondate su elementi concreti”. Peraltro, secondo “i principi ormai consolidati dell’ordinamento italiano e di quello sovranazionale il detenuto deve poter ottenere una rivalutazione della propria posizione per dare concretezza al percorso rieducativo, pur in presenza di una pena perpetua. Oggi invece - affermava ancora la difesa - il soggetto è discriminato rispetto a chi ha la stessa condanna ma non è soggetto al regime del 41 bis, ed è impedito ad ottenere i benefici nonostante abbia aderito all’opera rieducativa”.

Tesi ritenute “infondate” dalla Suprema Corte che ha per questo rigettato il ricorso e condannato il boss a pagare le spese processuali. I giudici sottolineano come anche le indagini più recenti “attestano l’operatività del mandamento di Boccadifalco-Passo di Rigano, di cui il ricorrente è stato a lungo capo”, ma anche “il ruolo di primissimo piano ricoperto da La Barbera, anche durante la sua lunga detenzione, dimostrato non solo dalla sua biografia criminale ma, più recentemente, dalla sua influenza all’interno di Cosa nostra, rilevabile nell’adozione, da parte dei clan mafiosi, di una linea strategica da tempo propugnata dal ricorrente, che oggi viene attuata attraverso l’infiltrazione nei gangli economici della società evitando lo scontro frontale con lo Stato” senza contare “l’assenza di qualsivoglia indizio di dissociazione dal contesto criminale di appartenenza” da parte del detenuto.