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di Francesco Petrelli

Il Riformista, 19 marzo 2024

Sono trascorsi esattamente centoventi anni da quel 18 marzo 1904 quando Filippo Turati pronunciò davanti al Parlamento il suo famoso discorso di denuncia sulle condizioni delle carceri italiane. Vi sono, in quel discorso, passaggi di straordinaria e impressionante attualità: “L’attuale regolamento - diceva Turati pronunciando quella sua drammatica requisitoria - si fonda essenzialmente su due concetti antitetici: da un lato l’intenzione di atterrire e deprimere il condannato, di fargli sentire la potenza enorme dello Stato vindice; questo è il lato innegabilmente feroce del Regolamento; ma di contro a questo, che è il lato in ombra… vi è nel Regolamento tutta una serie di precetti intesi poi a confortare il condannato, ad elevarlo … senonché, come è molto più facile rinchiudere un condannato, spaventarlo, brutalizzarlo, che non educarlo e farne un uomo nuovo; come la ferocia non richiede né intelligenza, né fatica, né mezzi pecuniari, è avvenuto che tutta la parte brutale, quella in cui sopravvive lo spirito della vendetta sociale contro il disgraziato che è nelle carceri, è larghissimamente applicata; tutta la parte, invece, che rispecchia il dovere dello Stato a provvedere alla redenzione del colpevole, è rimasta lettera morta”.

Non una soluzione ma un luogo problematico - C’è da chiedersi di fronte a tale persistenza dei fenomeni quale sia la ragione di questa vischiosità, il motivo profondo di quel rimanere incagliati nella incapacità di sottrarre il sistema carcere nel suo complesso a questo stato di cose. Non che manchino le idee, le professionalità, le applicazioni virtuose. Ciò che manca è una condivisa convinzione che il carcere non sia una soluzione ma un luogo problematico sul quale investire soprattutto in termini di pensiero. Manca la sana prospettiva che quel luogo riguardi tutti noi cittadini perché specchio della nostra cultura collettiva, della nostra vita e della nostra visione del mondo. Che l’attuazione dei princìpi costituzionali non sia una strada in discesa è cosa nota, ma certo non giova ad una idea progressiva di rieducazione, nata - come ci ha ricordato di recente Giovanni Fiandaca - dall’incrocio dell’articolo 27 con l’articolo 3 della Costituzione, quella congerie di slogan escogitati negli ultimi anni che hanno invece trasformato la pena in carcere ed il carcere in un luogo il più possibile astratto e distante dalla società civile, in un contenitore di uomini sui quali riversare il rancore e il risentimento sociale.

Una faticosa mutazione - Risuona nelle parole di Filippo Turati tutto lo sconforto di un’epoca che sembrava già percepire come quell’istituzione covasse in sé il germe del suo stesso fallimento, proprio in quanto geneticamente incline a riprodurre e conservare solo “quella parte brutale” della privazione della libertà “in cui sopravvive lo spirito della vendetta sociale contro il disgraziato che è nelle carceri”. Ma oggi quella divaricazione si è oggettivamente ampliata, perché mentre quella parte brutale si è attestata ubiquamente nel sentire comune, l’altra, quella relativa al “dovere dello Stato a provvedere alla redenzione del colpevole”, è finita in un vicolo cieco. Quella doverosa azione dello Stato, che non è più emenda, ma rieducazione o meglio ancora risocializzazione, stenta a darsi una forma compiuta, non riesce a farsi rappresentazione sociale, ingabbiata com’è in una insensata banalizzazione di improbabili schieramenti divisi fra buonisti e rigoristi, fra “amici dei mafiosi” e “buttare via le chiavi”.

Come sempre accade, l’assenza di riforme coraggiose e lungimiranti che aspirino al superamento della forma “carcere”, induce anche oggi a presidiare l’esistente, a privilegiare le circolari (e le rispettive interpretazioni), le prassi e i regolamenti la cui applicazione finisce progressivamente con il disumanizzare, complice il sovraffollamento, i rapporti fra operatori e detenuti, fra l’interno e l’esterno. Accade così che si estenda anche la forbice fra i diritti affermati o ri-affermati dal Giudice delle leggi e la loro effettiva attuazione, che si fa sempre più un miraggio per i più, in quanto comunque segnata dall’ineguaglianza delle condizioni esistenti fra istituto e istituto. Così come già accade per la tutela della salute, per l’assistenza psichiatrica, per la fruizione dei diritti o dei “benefici” amministrati dalla magistratura di sorveglianza.

120 anni inutilmente trascorsi - Cresce in questo contesto, in mancanza di progetti e di risposte, quel sentimento di disumanizzazione, di arbitrarietà dei destini, quella “disperazione oggettiva” di cui sono il drammatico segnale gli innumerevoli suicidi susseguitisi in questi ultimi mesi in una atroce sequenza senza fine che non distingue i detenuti per età e per titolo detentivo. Quei centoventi anni inutilmente trascorsi da quel lucido discorso di denuncia, se pesano come un macigno sulle nostre coscienze per non essere riusciti a sottrarre il carcere all’inumanità e al degrado, dovrebbero tuttavia disvelarci un’altra verità.

Che non possiamo chiedere alla cruda privazione della libertà, a quell’orribile e ottuso dispositivo “intramurario”, di torcersi in ciò che non può essere e non può diventare. Quei centoventi anni inutilmente trascorsi ci devono imporre una scelta non più rinviabile, quella di una riforma culturale coraggiosa che abbandoni l’idea della costruzione di nuove carceri e che sia invece premessa della realizzazione di nuove idee e di nuovi percorsi della penalità.

Dobbiamo convincerci del fatto che quelle strutture, nate esclusivamente per la somministrazione di una pena illuministicamente e kantianamente retributiva, non sono adatte al conseguimento di finalità alternative costituzionalmente orientate. Conviene prendere atto di una banale verità, che tutto ciò che di buono riescono con fatica e dedizione a fare i direttori, gli operatori, il personale intero e la stessa polizia penitenziaria all’interno del carcere, viene fatto, a ben vedere, nonostante e contro il carcere.