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di Manlio Morcella*

L’Unità, 7 settembre 2024

Il 10 luglio scorso, l’aula della Camera abrogava il reato di abuso di ufficio. Così, dopo ben 12 ore ininterrotte di lavoro, veniva approvata la riforma Nordio. Risultato assai discutibile, conseguito ottimizzando anche la massiccia propaganda, incentrata sulla esigenza di tutelare i sindaci intimoriti di essere inquisiti per abuso e sulle poche condanne che avrebbero contrassegnato la vita del modello penale. Che propaganda fosse, è pacifico. L’abuso di ufficio non riguarda solo i sindaci, bensì tutti i pubblici ufficiali, responsabili di abusi: magistrati che favoriscono o danneggiano taluno, medici che non rispettano le liste di attesa, soprattutto amministratori di enti pubblici o para pubblici - di designazione partitica - che agevolano l’imprenditore o il professionista della stessa parte politica.

È soprattutto la esigenza di assicurare impunità a questa categoria di soggetti che, insieme al ridimensionamento del traffico di influenze illecite, ha ispirato la barbara abrogazione del reato in rassegna. Con buona pace della ratio storica di tale modello penale, per come ben evidenziata nelle parole appresso riportate del professor Padovani: “L’abuso d’ufficio è un presidio dello stato di diritto; è nato con la Rivoluzione francese per proteggere il cittadino contro gli abusi dell’autorità.

Eliminarlo significa regredire a uno stadio premoderno; significa trasformare il potere pubblico in una discrezionalità arbitraria del pubblico ufficiale che potrà vantarsi di avere prevaricato (…)” - senza che - “nessuno potrà dir nulla”. Peraltro, a ben vedere, la criticata licenza legislativa, corre pure il serio rischio di imbattere in questioni di legittimità costituzionale nell’ottica degli artt. 11 e 117 Cost., rilevato che la morte dell’abuso di ufficio sembra violare la Convenzione di Merida, ideata per contrastare tutte le forme di corruzione.

Più esattamente, il suo articolo 19, che non obbliga, ma comunque sollecita, l’introduzione di questo reato negli ordinamenti degli Stati parte della Convenzione che non lo contemplavano. Al contrario, dunque, del nostro, in cui era già inserito: di qui pure la contestuale derivata violazione dell’art. 31 della Convenzione di Vienna, che impone di interpretare secondo buonafede i Trattati internazionali ratificati. Ad ogni buon conto, è innegabile che la novella normativa, nel concreto, ha determinato la emanazione di una amnistia mascherata, deliberata di furia, a valere per oltre 3mila condannati in via definitiva. In parallelo, esiste la trascurata tragedia delle carceri.

Presenti al 18 agosto 61.464 detenuti in 46.898 posti regolarmente disponibili: cioè, 14.566 detenuti in più e un tasso medio di sovraffollamento del 131,06%, con punte che in 50 istituti superano il 150%, in 5 realtà il 190%. Sovraffollamento importante anche nelle carceri per minori. A fronte di oltre 14.500 detenuti in più, ci sono 18 mila agenti della polizia penitenziaria in meno rispetto alla pianta organica prevista. Nel solo 2024, al 31 agosto, 67 detenuti si sono tolti la vita. Sette anche i suicidi fra la polizia penitenziaria. Questa la sintesi della invivibilità delle carceri, prive di spazi e di igiene.

Eppure l’art. 27 Cost. vuole che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Principi che l’attuale guardasigilli, nel 2023, pretendeva di assicurare con il recupero delle caserme dismesse; oggi, con nuova edilizia penitenziaria, con lo smistamento dei “tossici” in comunità e con il rimpatrio degli stranieri in vinculis. Peccato che, dimenticato il progetto delle caserme, non si spieghi come fare coesistere la tempistica di realizzazione delle nuove soluzioni - se praticabili - con lo scoppio dei penitenziari. Intanto, non si coltiva la proposta Giachetti, che innalzerebbe a 75 giorni per semestre la liberazione anticipata. Né si dà attuazione alla giustizia riparativa nella fase esecutiva, scritta sul ghiaccio dalla Cartabia. Viceversa, si tenta di introdurre con il pacchetto sicurezza due nuovi modelli penali, che regolano fatti commessi in carcere e nei centri di accoglienza, qualificando come rivolta anche la resistenza passiva o il rifiuto opposti a un comando (anche di rientrare in cella).

Ordine e disciplina, esecutorietà della pena sono i dogmi da ottemperare, a prescindere. L’attenzione fulminante, per reprimere l’abuso di ufficio, per annaffiare il traffico di influenze illecite e per azzerare le relative condanne, è “altra cosa”. Il dramma delle carceri è però, incontrovertibilmente, “la cosa”: e per risolverlo occorre l’indulto, che garantisce effetti solutori immediati. Magari da coniugare con una riforma della carcerazione preventiva, da ridurre all’osso. Nel ripristino del garantismo. E nel rifiuto della legislazione dei due pesi e delle due misure.

*Presidente della Camera penale di Terni