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di Francesca Visentin

Corriere della Sera, 23 maggio 2022

Madre uccisa, padre suicida o in carcere: il dramma di “chi resta”. Ecco il progetto “A braccia aperte” per figli e famiglie affidatarie che coinvolge regioni, Università, centri antiviolenza, enti del Terzo settore, e ha un finanziamento di un milione e 750mila euro in 4 anni.

L’ultimo ricordo che Matteo ha della sua mamma sono le grida di aiuto. Lui e la sorellina nascosti sotto il letto. Il papà li aveva chiusi a chiave in camera. Molte ore dopo un poliziotto li ha tirati fuori da lì, trascinati lontano da casa. “Dov’è la mamma?”, continuava a chiedere Matteo. Aveva 6 anni, da allora la sorellina non l’ha più vista. Prima è stato portato a casa degli zii, due anni di solitudine. Nessuno si accorgeva veramente di lui. Poi la comunità. Sperava in una famiglia, che alla fine è arrivata, con una nuova mamma e anche un fratello, sembrava la felicità. Ma il terrore di perdere tutto, di nuovo, l’ha angosciato ogni giorno. Sono passati 20 anni. Oggi Matteo lavora con i cavalli, attraverso la pet therapy aiuta altre persone a superare traumi, stress e difficoltà grazie all’empatia della relazione che si crea con gli animali. Matteo è un orfano di femminicidio. In quella cameretta, chiuso a chiave, ha sentito il padre uccidere la sua mamma. “Crescerlo è stata molto dura - racconta la mamma affidataria - e tante volte ho pensato di non farcela ad accogliere e gestire il suo dolore. Restava giorni interi chiuso in camera al buio, diventava autolesionista, alternava rabbia e richieste di amore. Aveva cicatrici profonde, che sono esplose nell’adolescenza”.

Il progetto Orphan of femicide invisible - Gli orfani di femminicidio dal 2009 al 2021 sono duemila in Italia. Vittime invisibili. Hanno perso la mamma, ammazzata dal padre, a volte davanti a loro. E hanno perso il padre, o per suicidio o perché è in carcere. Sballottati tra famiglie affidatarie e comunità, senza percorsi di sostegno psicologico adeguati, con un trauma profondo. Dolore, paura, rabbia, sensi di colpa e una domanda ricorrente: “Che ne sarà di me?”. Per sostenere in maniera concreta gli orfani di femminicidio è partito il primo progetto che mette in rete pubblico e privato: “Orphan of femicide invisible victim”. Cinque regioni, Università, centri antiviolenza del circuito Dire, enti del Terzo settore, Comuni, un finanziamento del governo di un milione e 750mila euro in quattro anni. I soldi arrivano dal Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, attraverso il bando “A braccia aperte” dell’impresa sociale Con i bambini. Il progetto garantirà in Lombardia, Veneto, Trentino-Alto Adige, Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia assistenza psicologica a orfani, orfane e famiglie affidatarie, sostegno economico per gli studi, i tirocini, gli stage e i master, fino all’inserimento nel lavoro, tutela legale e assistenza per i risarcimenti di cui hanno diritto o per cambiare il cognome. Ma anche formazione specialistica per operatori di pubblico e privato, terapeuti, tribunali e servizi sociali, in modo da creare professionisti più competenti e un coordinamento che intervenga in maniera tempestiva e condivisa.

I numeri - Gli orfani che verranno seguiti e sostenuti dal progetto tra Lombardia, Veneto, Trentino-Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna sono circa 200, vittime invisibili di 97 femminicidi tra il 2009 e il 2021, oltre a tutti i nuovi orfani dei futuri casi. “Questo è il primo progetto concreto e strutturato - fa notare Simona Rotondi di Con i Bambini, l’impresa sociale che distribuisce i finanziamenti e che ha coprogettato le azioni - attraverso il quale si coinvolgono tutte le parti: gli orfani, le famiglie affidatarie, gli operatori. E mette in rete pubblico e privato con azioni reali. Oggi esiste la legge 4 del 2018, che nella realtà è poco applicata, stenta a essere operativa e anche per i risarcimenti agli orfani richiede lunghi percorsi burocratici. Da una parte ci sono la sofferenza, il trauma e lo spaesamento degli orfani, dall’altra le famiglie affidatarie spesso non hanno gli strumenti per gestire queste situazioni senza un aiuto specializzato”.

La rete - Giorgia Fontanella, presidente della Cooperativa sociale e Centro antiviolenza Iside di Venezia, evidenzia: “Ci siamo rese conto che con gli orfani di femminicidio è fondamentale attivare la stessa rete di sostegno che scatta con le donne nei percorsi di uscita dalla violenza. Va restituita normalità di vita a ragazzi e ragazze, è indispensabile un sostegno psicologico specialistico e aiuto alle famiglie affidatarie”. Eleonora Lozzi, presidente di RelAzioni Positive, cooperativa del Centro Veneto Progetti Donna, sottolinea: “Il nostro obiettivo è non lasciare solo chi resta”.

Il caso emblematico di Marianna Manduca - E le domande di chi resta sono ricorrenti: perché mio padre l’ha fatto? Cosa accadrà quando lui uscirà dal carcere? A sintetizzarle è la psicologa Sara Pretalli del Centro Iside di Venezia: “Il percorso di chi resta è tra dolore e sensi di colpa. Non si perdonano di essere vivi, di non avere salvato la mamma”. Il progetto garantisce sostegno, ma anche interventi snelli. Perché non si ripeta un caso come quello dei tre figli di Marianna Manduca. I ragazzi, adottati da Carmelo Calì e Paola Giulianelli, sono passati attraverso un calvario giudiziario di 10 anni per ottenere il risarcimento che spettava loro. Marianna Manduca era stata uccisa dal marito nonostante lo avesse denunciato 12 volte per violenza e maltrattamenti. Lo Stato, condannato a risarcire con 259mila euro i figli per non averla protetta nonostante le denunce, ha pagato solo dopo 10 anni di battaglia legale. Una storia diventata anche un film, I nostri figli, con Giorgio Pasotti e Vanessa Incontrada.