di Alessandro Parrotta*
Il Dubbio, 29 agosto 2024
Con la sentenza n. 32470 del 9 agosto 2024, la Sezione VI Penale della Corte di Cassazione, presieduta dal Cons. Fidelbo, ha sancito un importante principio di diritto, riguardante il dolo specifico nei reati di frode in processo penale e depistaggio. La Corte ha chiarito che, per vedersi configurato il delitto previsto dall’art. 375 del codice penale, è necessario che il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio agisca con l’intenzione precisa di deviare l’indagine o il processo rispetto al loro corso naturale. Non è sufficiente, invece, che l’azione sia finalizzata a rafforzare o consolidare indagini o prove già acquisite, situazione che potrebbe integrare ipotesi meno gravi.
Questo chiarimento mette in evidenza come la Cassazione intenda riservare l’applicazione della sanzione più severa esclusivamente ai casi in cui vi sia un’intenzionalità chiara e diretta nel deviare il corso della giustizia, distinguendo così tra varie condotte che possono verificarsi durante le indagini o i processi. Sempre la Sesta Sezione della Corte di Cassazione con l’arresto n. 24557, nel 2017 aveva affermato che il reato di frode in processo penale e depistaggio, si configura come reato proprio del pubblico ufficiale, o dell’incaricato del pubblico servizio, la cui qualifica sia preesistente alle indagini e la cui attività sia in rapporto di connessione funzionale con l’accertamento che si assume inquinato, dovendo essere la condotta finalizzata all’alterazione dei dati, oggetto dell’indagine o del processo penale, da acquisire o dei quali il pubblico ufficiale sia venuto a conoscenza nell’esercizio della sua funzione.
È dunque evidente come la tipizzazione delle condotte risulti identica a quella prevista dagli ulteriori delitti di frode processuale, false informazioni al Pubblico Ministero o falsa testimonianza, dalla quale però si differenzia per la richiesta sussistenza del dolo specifico e per la qualificazione del soggetto attivo. L’elevata previsione sanzionatoria, poi, ha messo in risalto la necessità che il soggetto attivo ponga in essere una delle condotte mentre si trova ad adempiere ad un dovere inerente la sua funzione, il cui svolgimento implica una fisiologica convergenza di interessi tra la pubblica amministrazione rappresentata e il dipendente chiamato a svolgerne le funzioni.
Un’ altra pronuncia della Corte, arrivata nel febbraio 2023, aveva contribuito ad ampliare l’esegesi giurisprudenziale del reato in oggetto. Mentre le condotte volte ad ostacolare o sviare le indagini o un processo penale non possono che riguardare un processo che sia già stato attivato, le condotte volte a impedire l’avvio stesso del procedimento - attraverso per esempio la formazione di falsa documentazione - può riguardare anche un procedimento penale ancora non iscritto, a condizione che i comportamenti depistanti siano idonei a generare un pericolo di inganno volto a condizionare l’accertamento della verità processuale: così secondo la sentenza n. 7572/ 2023 della Suprema corte di Cassazione.
In questa occasione i giudici di Piazza Cavour avevano ritenuto prive di rilevanza le doglianze difensive secondo le quali il delitto ex art. 375 c. p. non poteva configurarsi perché il portafoglio in oggetto non aveva (ancora) acquisito la qualifica di corpus delicti in un procedimento penale già in corso d’opera, perché l’imputato non era un pubblico ufficiale incaricato delle investigazioni (essendone anzi il destinatario), né queste ultime erano state formalmente ancora avviate.
Secondo chi scrive è ragionevole ritenere che, in pendenza di indagini già avviate o di un procedimento penale pendente, occorra sempre l’esistenza di una correlazione funzionale tra le funzioni svolte dall’agente e le specifiche investigazioni in corso. Predetto requisito non risulta indispensabile, invece, laddove la condotta depistante sia posta in essere dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio in occasione dell’esercizio delle funzioni di quell’ufficio o di quel servizio.
La Suprema Corte era giunta a questa interessante conclusione - su cui non constano precedenti in termini nell’ancora scarsa giurisprudenza in subiecta materia - muovendo da quell’arresto di legittimità che aveva chiarito, in generale, che il delitto di depistaggio materiale postula, sul piano oggettivo, l’esistenza di un nesso tra il fatto realizzato dal soggetto agente e il pubblico ufficio o servizio di cui lo stesso è investito, non essendo però necessario che il pubblico ufficiale sia stato incaricato di specifici accertamenti rispetto ai reati.
In conclusione si può asserire che la ratio legis della norma ex art. 375 c. p. risieda nella ricerca della verità giudiziaria, non tanto in quella che è la tutela delle indagini processuali; purtroppo, essendo la norma caratterizzata da forte indeterminatezza sarà sempre oggetto di interpretazione e quindi discrezionalità da parte dell’autorità giudiziaria.
*Avvocato, Direttore Ispeg