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di Paolo Delgado

Il Dubbio, 5 marzo 2024

È durata pochi mesi la malattia che ha ucciso a 75 anni Barbara Balzerani, per anni, dopo l’arresto dell’allora suo compagno Mario Moretti, la principale dirigente delle Brigate Rosse. Inevitabilmente tutti la ricorderanno così, come un’ex terrorista, la “primula rossa” delle Br, l’unica donna presente nel commando che il 16 ottobre 1978 rapì Aldo Moro dopo aver sterminato la scorta. Oppure come l’impenitente che in occasione dei quarant’anni da quel sequestro se ne uscì con una frase che molti ritennero offensiva e inopportuna. In realtà nell’ultima e lunga parte della sua vita Barbara Balzerani è stata soprattutto una scrittrice.

Ha scritto 7 libri, che sarebbe difficile definire perché non sono romanzi e neppure memorialistica in senso stretto: piuttosto una lunga conversazione con se stessa sul senso, le ragioni, le origini profonde della sua scelta non solo politica ma esistenziale. Le schede biografiche sulla sua vita dicono pochissimo: un rosario di eventi non dissimili dai percorsi di moltissimi altri militanti della lotta armata in Italia. La nascita a Colleferro, in una famiglia operaia, l’arrivo a Roma nel 1969, in piena rivolta studentesca e operaia, l’adesione a Potere operaio e il matrimonio con un militante di quella organizzazione radicale ma non terrorista, Antonio Marini. Sbarcava il lunario assistendo i bambini con handicap in un asilo, studiava filosofia, soprattutto, come moltissimi militanti di quella generazione, faceva politica a tempo pieno. Nel 1975 entra nelle Br delle quali diventerà nel 1981 una delle principali dirigenti.

Le Br, anche se nessuno lo sapeva, non c’erano già più, non quelle che erano state sino a quel momento: erano scisse, divise, in feroce competizione tra loro. Barbara Balzerani guidava le Br-Pcc (Partito comunista combattente) contestate dalle Br. Pg (Partito guerriglia) di Giovanni Senzani ma anche, dall’interno del carcere, di Renato Curcio e Alberto Franceschini. Le esecuzioni in carcere per fermare il fenomeno dilagante del pentitismo furono il marchio del Partito guerriglia, che l’area di Balzerani rifiutò sempre.

Sembrava imprendibile Barbara Balzerani: nonostante l’organizzazione armata fosse ormai con le spalle al muro, riuscì a evitare di essere presa per quattro volte. La arrestarono nel 1985 e rimase in prigione una decina d’anni prima di accedere ai primi permessi, poi, nel 2006, alla libertà condizionale e infine, nel 2011, all’estinzione della pena. Oggi un percorso simile sarebbe impossibile ma la prima Repubblica era più saggia e più civile: quei leader politici sapevano che l’esperienza della lotta armata non era assimilabile alla criminalità comune, capivano che aveva coinvolto migliaia di giovani che sarebbe stato solo vendicativo lasciare in carcere perché, finita un’epoca storica, non costituivano più minaccia. Barbara Balzerani è stata molto critica verso alcuni aspetti della militanza armata ma non la ha mai rinnegata, non si è mai pentita, è sempre rimasta, nell’intimo, una rivoluzionaria. Ma non più un pericolo.

Ma per capire quella parabola i dati biografici non servono e ancor meno servono le spiegazioni politiche che le Br squadernavano nelle loro prolisse analisi. I libri che ha scritto fuori dal carcere, dal primo, Compagna Luna, all’ultimo, Lettera a mio padre, invece sì. C’è tutta la rabbia di chi era nata povera in una dimensione da romanzo ottocentesco, con i ricchi e i poveri da due parti della stessa piazza di una piccola città operaia, c’è la percezione dell’ingiustizia di fronte a un’industria che minava la salute di lavoratori e cittadini per profitto, la speranza immensa, poi degenerata spesso in distruttività omicida, della sua generazione. Quei libri non giustificano le scelte di Barbara Balzerani ma le rendono comprensibili se non condivisibili: rompono la gabbia stereotipa della ex terrorista o peggio per raccontare una donna e attraverso di lei una generazione. Per questo sarebbe giusto ricordarla, anche, anzi soprattutto, come scrittrice.