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di Giuliana Ubbiali

Corriere della Sera, 16 maggio 2022

La criminologa Isabella Merzagora: “C’è una parte malvagia in ciascuno di noi, inquieta che l’assassino non sia riconoscibile. Il prima passo per chi uccide? Ammetterlo”.

Alessandro Patelli, 20 anni, l’8 agosto 2021 accoltella Marwen Tayari, per un banale diverbio. Hamedi El Makkaoui, 24 anni, il 14 aprile 2022 massacra di martellate il papà della sua ex fidanzata Anselmo Campa, al culmine di una lite per un’automobile. Giovani con un lavoro, una famiglia solida, nessun precedente, che dal nulla hanno ucciso.

Isabella Merzagora è professore ordinario di Criminologia alla Statale di Milano e, tra l’altro, perito in diversi casi giudiziari, come quello di Benno Neumair. L’abbiamo incontrata.

Allora, forzando, tutti potrebbero uccidere?

“Se partiamo dal presupposto che non ci sia una anormalità palese in chi uccide, allora tutti possono, nel senso che non hanno la pelle verde e le antenne. Ma abbiamo un panorama italiano con meno di 300 omicidi l’anno. Quindi non è che tutti possono, è che pochissimi lo fanno. Già ridimensioniamo e cambiamo prospettiva”.

Restringendo, si può uccidere pur a fronte di un’apparente normalità psichica, sociale, economica?

“Abbiamo dei precedenti illustri. Maso, 40 anni fa. Erika e Omar, 20 anni fa. Benno Neumair, appunto, più recentemente. Sono sempre stati i giovani adulti ad uccidere di più. Se si intende che non dobbiamo necessariamente cercare delle deprivazioni economiche e ambientali in chi uccide, è vero”.

Spiazza e inquieta...

“Ci fa vedere un po’ il male in una diversa prospettiva, perché purtroppo è una potenzialità nostra. Ma, ripeto, stiamo parlando di numeri assoluti e tassi di omicidio che così bassi non sono mai stati. Questo consola. Invece, è chiaro che non poter riconoscere e collocare socialmente ed economicamente i potenziali assassini generi una certa inquietudine”.

Questi due ragazzi non sono stati in grado di dare il giusto peso a un’offesa o a frustrazioni? Sono fragili, o è una spiegazione comoda?

“L’omicidio, chiamiamolo “gratuito”, ha dei precedenti, persino letterari. Ma un episodio che, visto da fuori, può sembrare banale, vissuto da un’altra persona potrebbe anche aver evocato qualcosa. Cosa non lo sappiamo, bisognerebbe parlare con loro. Se poi ci si chiede se una persona che ammazza ha qualche problema, direi di sì. Non vuol dire necessariamente una malattia o una incapacità mentale; dico che non sarà di certo un modello di equilibrio e armonia”.

Se si esclude l’incapacità mentale, in quel momento uccidere è comunque una scelta? Avevano alternative...

“Dipende. Diverso è l’omicidio programmato, non arrivo ad utilizzare il termine giuridico premeditato, che non mi pare sia in questi due casi, dall’omicidio d’impeto. Dipende anche dall’arma che viene utilizzata. Le armi sono sempre un guaio, e se hai un’arma con te una scelta l’hai già compiuta. Le armi da fuoco sono le più pericolose, perché se spari colpisci e non hai la sensazione di farlo”.

In questi casi sono stati utilizzati un coltello e un martello, implicano una violazione del corpo che anche l’assassino percepisce. Su due ragazzi che non erano mai stati violenti che impatto può avere?

“Questo non lo so. È giusto l’interesse per l’autore, ma chiediamoci l’impatto che tutto questo ha sui familiari delle vittime. Immaginiamo come si sentirà la figlia della seconda vittima rimasta orfana a causa di un ragazzo a cui lei ha voluto bene”.

Dove è il confine tra la rabbia e la violenza? Perché non si sono controllati e altri lo avrebbero fatto?

“Sapessi questo, avrei preso il Nobel per la criminologia. Sono tantissimi i motivi. Perché, per esempio, le donne uccidono meno? Siamo meno propense alla violenza. Ci sono motivi psicologici, sociali, culturali, magari anche psicopatologici. Troppi per poterne indicare solo alcuni”.

Si abusa del termine raptus?

“Lasciamo stare il raptus che non esiste. Si chiama discontrollo. Ci deve essere una base di vulnerabilità, che non vuol dire essere malato di mente”.

Il passo successivo, anche come strategia difensiva, è chiedere il riconoscimento dell’incapacità di intendere e volere...

“Che qualche volta c’è, ma non è così automatica. Il comportamento violento e anomalo è una cosa, la malattia mentale è un’altra, l’incapacità di intendere e volere è un’altra cosa ancora. Anche una persona malata di mente può essere capace di intendere e volere. Quando sentiamo di un fatto violento, atroce, inusuale, non dobbiamo commettere l’errore di dire “solo un matto può fare cose del genere”.

C’è una parte malvagia in tutti noi?

“C’è così come c’è una parte forse eroica in ciascuno di noi. L’idea “quella è una cosa da matti, l’ha fatta un matto; io non sono matto, quelle cose non le faccio” è un sillogismo claudicante che serve a rassicurarci. Si commettono cose atroci anche senza essere matti. Abbiamo visto gente, non dico normale perché normale non significa nulla, non matta commettere cose atroci. E viceversa, tanti malati di mente comportarsi con mansuetudine, caso mai essere vittime”.

Ragazzi come questi potrebbero uccidere ancora o, segnati, non lo ripeteranno?

“Dipende da persona a persona. Bisogna conoscerli. Esiste però il trattamento criminologico, che non è la psicoterapia. Lo facciamo con i partner abusanti, per esempio, si può cercare di fare in modo che non lo ripetano. Non so se lo rifaranno o no, so che se nessuno spiega loro che non andava fatto e nessuno va a vedere perché l’hanno fatto, allora forse succederà ancora. Non si tratta di curarli, ma di risocializzarli”.

Il loro futuro dipenderà molto dalle strutture e dalle persone che li seguiranno..

“In teoria i criminologi ci sono anche in carcere, benché siano molto pochi, così come gli operatori in carcere sono comunque pochi”.

Il loro primo passo?

“La responsabilizzazione. Rendersi conto di quello che hanno fatto. Non raccontarti storie, prendi atto di quello che hai commesso”.

Le famiglie delle vittime vanno messe al primo posto, quelle degli assassini come possono uscirne?

“Capisco la loro angoscia perché si sentiranno in colpa senza, forse, bisognerebbe conoscerli meglio, averne nessuna. È una tragedia che colpisce due famiglie per intero”.