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di Alessandro Diddi

Il Dubbio, 8 agosto 2023

Si parla molto in questi giorni del possibile fallimento degli obiettivi che il Governo Draghi aveva posto per rientrare nei parametri europei richiesti dal PNRR, la riduzione del 25% dei tempi medi dei processi penali nei tre gradi di giudizio. Stanno infatti affiorando i limiti della riforma Cartabia che, nonostante i numerosi spunti di novità (alcuni apprezzabili, come il tentativo di superare la ormai inattuale logica sanzionatoria e l’implementazione degli strumenti informatici nel processo), non si è contraddistinta per soluzioni davvero originali nell’ottica della accelerazione dei tempi dei processi.

I primi sette mesi di applicazione della riforma hanno dimostrato che la riforma delle pene sostitutive, forse la innovazione di più grande rilievo, ha sollevato notevole interesse teorico, producendo tuttavia scarsi risultati sul piano pratico (forse anche a causa della mancata introduzione, tra le pene sostitutive, dell’affidamento in prova). Ma soprattutto è già chiaro che nessuna tra le modifiche concepite dal precedente Governo ha saputo davvero incidere sulle lentezze del processo.

Il vero imbuto del sistema è costituito invero dal dibattimento, sul quale a ben vedere la riforma Cartabia non ha apportato grandi novità. La imposizione di un calendario dei lavori nei casi in cui il processo non possa essere definito in una sola udienza non può certo essere definita una “rivoluzione copernicana”. Pur volendo ignorare che si tratta in realtà di prassi già seguita da molti magistrati, il problema a monte - la fatale circostanza che le agende dei giudici sono già sovraccariche - non è stato neppure sfiorato.

Forse più efficace appare la introduzione delle videoregistrazioni delle udienze. La regola per la quale ad ogni mutamento del giudice del dibattimento debba conseguire la rinnovazione dell’istruzione è un oggettivo fattore di rallentamento dei processi, soprattutto in alcune sedi periferiche considerate di mero transito dai magistrati. Con il nuovo meccanismo il necessario contatto tra giudice e fonte di prova sarà assicurato, appunto, dalla videoregistrazione dell’udienza. Non può tacersi tuttavia che anche questa soluzione, comunque lesiva delle garanzie difensive ed inidonea ad assicurare anche solo la formale osservanza del principio di immediatezza (non avendo il legislatore spiegato in che modo e quando il giudice dovrà vedere il video, è prevedibile che, soprattutto nei processi più grandi, tale visione difficilmente avrà luogo), intercetterà comunque solo un determinato numero di processi, che certamente non rappresentano la percentuale più significativa delle attuali pendenze.

Altro fattore che ha contribuito a determinare il fallimento della riforma Cartabia (critica che peraltro si potrebbe estendere anche a quelle che l’hanno preceduta) è il non aver voluto affrontare quello snodo che era stato considerato cruciale nell’impalcatura accusatoria del nuovo codice, vale a dire l’udienza preliminare. Più volte rimaneggiata dal legislatore per cercare di renderla filtro effettivo delle imputazioni azzardate, fino alla discussa operazione di anticipare a quella fase la regola del BARD applicabile dal giudice del merito per l’affermazione della responsabilità, l’udienza preliminare rimane l’anello più debole del procedimento. I GUP, nonostante il nuovo criterio di giudizio, continuano in modo mortificante a fungere da meri passacarte ai giudici del dibattimento, indifferenti persino agli annullamenti delle ordinanze cautelari da parte della corte di cassazione per insussistenza della gravità indiziaria.

Senza bisogno di particolari doti di preveggenza si può guardare poi con un certo scetticismo alla nuova udienza predibattimentale prevista per il rito monocratico a citazione diretta, i cui effetti non si sono ancora potuti apprezzare perché, proprio a causa dei tempi processuali, non si sono ancora celebrate. È difficile immaginare che un modello, che ha fallito nella sua sede naturale, possa apportare un significativo contributo in un settore del sistema da sempre particolarmente sofferente.

A non miglior sorte sembra infine destinato il riformato giudizio abbreviato condizionato - che, invece, in un’ottica deflattiva potrebbe davvero costituire una seria ed effettiva alternativa al dibattimento - nonostante la nuova regola dalla quale dipende l’ammissione della prova richiesta dall’imputato al GIP e la possibile ulteriore riduzione prevista per la rinuncia all’appello.

Non meraviglia, dunque, che oggi si constati che i “conti” non tornano e che gli obiettivi della riforma si rivelano irraggiungibili. Il vero problema, però, è che non si vedono all’orizzonte possibilità di inversione di questo triste trend del nostro sistema processuale. Neppure il recente disegno di legge governativo sulla riforma della giustizia contiene proposte che vanno nella direzione in cui, ormai urgentissimamente, è necessario andare.

Non servono mere opere demolitorie, come sino ad oggi è stato, di un modello concepito 35 anni fa con l’idea di voltare pagina rispetto ad un processo che non garantiva i diritti degli imputati; della sua logica originaria, quella accusatoria, ove si prosegua nella intermittente e casuale riduzione delle garanzie dell’imputato, rischia di mantenere solo il nome. Nelle ultime legislature, dalla riforma Orlando a quella Cartabia, si è assistito a vari ma vani tentativi di rendere più efficiente il processo penale, che però - bisogna prenderne atto - è imploso in maniera irrimediabile e non può più essere rabberciato con interventi di piccolo cabotaggio.

Chi frequenta i tribunali sa che i rinvii tra un’udienza e l’altra raggiungono, di regola, i sei mesi; in grandi tribunali i rinvii a giudizio dinanzi ai tribunali in composizione monocratica all’esito dell’udienza preliminare possono avvenire anche ad un anno di distanza dal decreto del GIP. Per non parlare, poi, dei tempi tra il momento della richiesta delle date per la trattazione dei processi a citazione diretta e la prima data dibattimentale, che a volte superano i due anni.

Siccome ricette magiche non esistono, si deve auspicare che Parlamento e Governo, di fronte al fallimento delle precedenti riforme, non seguano le strade già battute e coraggiosamente si facciano promotori di una completa riscrittura del processo penale, optando per una diversificazione dei modelli a seconda delle materie e coinvolgendo nell’opera gli operatori della giustizia (a partire dagli avvocati, unici e veri testimoni del disfacimento del sistema).

Ma l’auspicio è soprattutto che si arrivi finalmente a parlare di quello che negli ultimi anni sembra divenuto un tema impronunciabile: l’amnistia. È inutile negare che non ci sarà alcuna riforma che, per quanto rivoluzionaria, potrà curare il male del nostro sistema, finché essa si innesterà su una macchina zavorrata dal peso di un arretrato spaventoso.