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di Vincenzo Scotti*

La Stampa, 21 gennaio 2023

Roberto Saviano su La Stampa di martedì 17 obietta che l’”ergastolo ostativo”, al quale è stato sottoposto Messina Denaro, al pari di tanti altri boss della criminalità organizzata, “è oggettivamente una misura che contraddice la natura stessa della pena che serve a reinserire e non ad escludere” e ci ricorda anche che “l’ergastolo ostativo contraddice la natura stessa della Costituzione”. Saviano si inserisce in un dibattito anti 41 bis che ha ripreso forza da qualche tempo e si è allargato dopo la cattura del latitante di Castelvetrano. Già, dopo l’ultimo degli stragisti, Riina, la mafia aveva cambiato volto. Sarà forse un volto umano? Fosse così, certo, si potrebbero mettere finalmente da parte quegli articoli del codice, proposti con decreto legge da me insieme ai colleghi di governo, in cui non c’era solo il 41 bis ma un insieme di norme che completavano specificamente le leggi antimafia del 1991 e 1992 e consegnavano, soprattutto agli investigatori e ai magistrati, “strumenti” rivelatisi concretamente efficaci anche se rischiosi nella lotta alla mafia. In pratica agli uomini dello Stato veniva chiesto un prezzo altissimo: rischiare la propria vita.

In queste ultime settimane ho letto a proposito del 41 bis le stesse obiezioni e critiche che mi vennero rivolte in quei tormentati anni 1991-1993. Forse è il caso di chiarire come e perché si adotta quella misura. Quando sono diventato ministro, una delle questioni più urgenti da affrontare era quella del funzionamento della “macchina” del crimine. I boss mafiosi in carcere gestivano con estrema facilità tutti gli affari in contatto con l’esterno cioè con i capi delle cosche. Nei primi giorni di giugno del 1992 dovevamo dare una dura risposta alla mafia per la strage di Capaci. Il governo approvò un decreto legge, l’8 giugno, con un numero elevato di misure necessarie per rafforzare i poteri di indagine e di giudizio della magistratura e chiudere il cerchio delle norme antimafia. Alla riunione finale dei due ministri chiesi di affrontare la questione del rapporto tra mafiosi in carcere e fuori. La proposta fu quella dell’isolamento per impedire in ogni modo i rapporti tra i boss in carcere e quelli fuori, offrendo ai carcerati di scegliere tra collaborare e andare in isolamento.

Dibattiti di stagione, si dirà. La criminalità organizzata però non è un fatto di stagione. Lo stesso Saviano sottolinea che “nessuno può essere chiuso a chiave senza appello” e io sono d’accordo con lui. Se fosse vero che Messina Denaro, come dice lo scrittore, “è al corrente di molte cose” questa nostra legge gli dà opportunamente la possibilità di liberarsi dell’afflizione prevista dal 41 bis: basta che ci dica quelle “cose”. Questo vale per il fresco detenuto come per gli altri boss che popolano le nostre carceri. Il 41 bis è un chiavistello che costoro hanno in mano e se decidono di parlare serve ad aprire se non le porte del carcere almeno quelle che li separano dal mondo, in modo da rompere il circuito tra chi sta dentro da chi sta fuori che è appunto il fine di quella misura.

È bene poi ricordare che quella legislazione che tanto fece discutere negli anni Novanta e i cui risultati credo non debbano andare dispersi nel chiacchiericcio, è un corpus nel quale tutto si tiene: smontare il 41 bis significherebbe dare il via alla sua demolizione.

Non mi sembra sia ancora tempo di demolire, pensando di trovarci di fronte a una criminalità radicalmente cambiata con la quale sarà bello discutere amabilmente. Purtroppo nel mondo e anche in Italia la rete criminale si è rafforzata. “Le mafie si evolvono e si adattano e quasi si plasmano al contesto socio-economico e politico di risanamento”. Scrive un autorevole magistrato: “Il punctum dolens” dell’intero ragionamento è proprio questo: “Oggi la nuova mafia opera attraverso una condotta silente e mercatista, che si fa forte del potere economico corruttivo stabilmente infiltrato, senza armi o violenza fisica. Anche a livello normativo si dovrebbe attuare una riscrittura della fattispecie normativa per colmare la distanza ontologica tra la condotta ipotizzata dalla legge 646 del 1982 relativa alle mafie violente di prima generazione e le organizzazioni criminali contemporanee ... Questa nuova fattispecie incriminatrice potrebbe far rientrare a pieno titolo nell’alveo di quella legge anche le relazioni illecite tra apparati pubblici e crimine organizzato in forma stabile e associata che caratterizzano il fenomeno storico delle mafie contemporanee... Il venir meno della violenza e della minaccia come strumenti di queste organizzazione non le rende meno pericolose. Le caratteristiche del crimine organizzato moderno sono ricorrenti in tutto il mondo: la transnazionalità delle organizzazioni più attive è una realtà oggettiva. La stessa corruzione, nelle sue forme più gravi, è transnazionale: la foreign bribery è una modalità operativa diffusa globalmente, che inquina l’economia e frena lo sviluppo sostenibile dell’umanità”.

Torniamo al 41 bis: Falcone presiedeva il gruppo di lavoro per il regolamento dei collaboratori di giustizia. Terminati i lavori non portava il testo alla firma. Sollecitato in Parlamento per il ritardo chiamai Falcone che mi disse che lui era molto convinto per averlo proposto ma, aggiunse, questo strumento è delicatissimo e richiede magistrati di altissimo livello e rigore per non rischiare che sia il collaboratore a guidare il magistrato. E questa sarebbe oggi una riflessione che il giudice palermitano potrebbe prendere in considerazione, nel dibattito sulle intercettazioni telefoniche e l’art. 41 bis. Nello stato attuale delle trasformazioni delle reti criminali transnazionali e di quelle del territorio italiano (si pensi alla presenza della ‘ndrangheta) non c’è spazio per ipotesi quali la cancellazione al buio di parti determinanti della legislazione antimafia degli anni Novanta, i cui risultati non sono contestabili. Il passaggio da Corleone a una rete silente è la sfida di oggi.

*Ex ministro dell’Interno