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di Raffaele Tovino

L’Edicola del Sud, 18 marzo 2024

Partiamo da un dato: il 68,7% dei detenuti che in carcere non lavorano torna a delinquere. E questo valore tocca addirittura il 90% se si pensa che una parte dei reati commessi dai recidivi non viene scoperta. Quante sono, invece, le persone che, dopo aver lavorato regolarmente durante la detenzione, si mettono nuovamente sulla cattiva strada? Non più del 2%. Una statistica che andrebbe spiegata ai teorici del “buttiamo la chiave”, sempre pronti a sventolare cappi e manette, ma anche a chi non sembrano comprendere l’importanza del lavoro in carcere.

Un detenuto costretto a vivere in spazi risicati e il più delle volte fatiscenti, ad accontentarsi di due ore d’aria al giorno e a comunicare con i propri familiari dietro un vetro divisorio, finisce per incattivirsi e per interpretare la pena non come un’occasione di reinserimento sociale, ma solo ed esclusivamente come una punizione. I detenuti assunti da aziende che portano i propri reparti all’interno del carcere, invece, sono occupati per otto ore al giorno, guadagnano uno stipendio regolare, pagano le tasse, hanno la possibilità di sostenere economicamente la propria famiglia, sentendosi utili e allontanandosi dalla strada del malaffare.

Questa differenza, peraltro piuttosto intuitiva, non sembra essere molto chiara in un Paese come l’Italia. Basta analizzare i numeri: su poco meno di 61mila detenuti, sono soltanto 700 quelli che lavorano in carcere e ai quali se ne aggiungono circa 1.700 che prestano servizio in regime di semilibertà. Lo scenario complessivo non è migliorato dopo l’approvazione del protocollo Cartabia-Colao che avrebbe dovuto portare all’inserimento di circa 10mila detenuti nel mondo del lavoro attraverso una serie di aziende disposte a insediare le rispettive attività nelle carceri. Nel solo settore della fibra ottica erano previste 1.553 assunzioni. Alla fine, per, i detenuti effettivamente ingaggiati sono stati tre.

A ostacolare la svolta sono almeno due fattori. Il primo è quello al quale si è già accennato, cioè quella linea di pensiero secondo la quale la pena deve tradursi in una semplice punizione e nei confronti dei detenuti non bisogna usare alcuna pietà. È lo stesso orientamento che, in barba alla Costituzione e a una consolidata giurisprudenza, si oppone alla possibilità che i detenuti vengano effettivamente curati, che coltivino le proprie aspirazioni e la propria affettività, che possa essere insegnato loro un mestiere. Eppure tutti i dati statistici evidenziano come la pena intesa come punizione generi una spirale negativa.

Il secondo ostacolo è la burocrazia. Emblematico il caso del carcere di Verona, dove per dieci anni hanno lavorato ben due aziende. Poi, a marzo 2023, il permesso è stato revocato perché alle imprese è stata riscontrata qualche irregolarità amministrativa. E lo Stato che cosa ha fatto? Anziché aiutare le aziende a mettersi in regola, le ha sbattute fuori. Con la conseguenza che oltre 150 detenuti sono stati costretti a tornare in cella, dall’oggi al domani, senza più un lavoro. E quindi non c’è da meravigliarsi se, a Verona, dall’inizio del 2024 si siano verificati già cinque suicidi.

Sarebbe il caso, quindi, che le istituzioni consentissero alle aziende di operare in carcere e ai detenuti di lavorare. Per centrare l’obiettivo, però, occorre superare, una volta per tutte, l’idea della galera come discarica sociale in cui “smaltire” persone plurisvantaggiate con dipendenza da alcol, droga e gioco o affette da problemi psichiatrici o i migranti giunti in Italia a bordo dei barconi. E, nello stesso tempo, bisognerebbe capire e far capire quanto il lavoro in carcere faccia bene non solo a chi sta dentro, ma anche a chi sta fuori.