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di Iuri Maria Prado

L’Unità, 9 agosto 2023

Ci sono molti punti di vista dai quali osservare l’evoluzione del discorso pubblico di questi giorni a proposito della strage di Bologna: un discorso che era cominciato stortignaccolo già prima delle polemiche che lo avrebbero rinvigorito - si fa per dire - sulla scorta delle dichiarazioni innocentiste di un amministratore di destra, quel Marcello de Angelis secondo cui Fioravanti, Mambro e Ciavardini, condannati per la strage, a suo giudizio “non c’entrano nulla” con l’attentato del 2 agosto del 1980.

E tra i tanti punti di vista (quello sociologico, quello storico, quello elettoral-rissaiolo, quello del corazziere quirinalizio, quello talmudico-giudiziario) sceglieremmo quelli desueti: il punto di vista da questa postazione un po’ strana che è lo Stato di diritto; e poi il punto di vista democratico.

Dal punto di vista dello Stato di diritto la legge è un fatto, ed è un fatto la sentenza che - bene o male, secondo il giudizio di ciascuno - la applica. La giustizia non è un fatto: è un valore. Un valore per definizione mutevole, appunto secondo il criterio di ciascuno. Per questo dietro alle spalle del giudice è scritto il fatto: “La legge è uguale per tutti”; e non il valore, cioè “La giustizia è uguale per tutti”. Perché non esiste una giustizia uguale per tutti, e se pretendesse di esistere non sarebbe giustizia ma arbitrio.

Ora, lo Stato di diritto obbliga al rispetto delle leggi e delle sentenze per il fatto che esse sono emesse: non per il fatto che esse sono giuste, perché ciò che è giusto per uno non è giusto per un altro. E quel rispetto non risiede nell’omaggio alla giustizia della legge o della sentenza, né tanto meno nell’obbligo di omaggiarle. Risiede nel dovere di riconoscere quel fatto (la legge, la sentenza) e di rispettarne il contenuto in questo solo senso: nel senso che non va travisato, non certo nel senso che va condiviso.

La sentenza che condannasse il delitto di omicidio commesso da un comunista non sarebbe - se non diventando un atto arbitrario - una sentenza anticomunista; e non sarebbe un sovversivo comunista chi denunciasse che non debbono esistere sentenze anticomuniste: sarebbe un ordinario osservatore dal punto di vista dello Stato di diritto, almeno sino a che l’ordinamento non preveda il delitto di omicidio comunista.

E semmai lo prevedesse (eccoci al secondo punto di vista, l’altrettanto desueto punto di vista democratico) quell’ordinamento cesserebbe di essere, giustappunto, democratico.

Uno può essere spinto al nocumento altrui, o comunque rendersene responsabile, in quanto fascista, comunista, ecologista, liberista, familista, sovranista, monarchico, gnostico, eretico, deista, ateista: ma lo Stato democratico lo condanna per il nocumento che arreca agli altri, non per i suoi convincimenti né per la sua condizione o predilezione politico-religiosa.

Né ancora in uno Stato democratico esiste un’autorità con il potere di richiamare chicchessia al dovere di “rispettare” una sentenza in quel senso democraticamente vietato: e cioè nel senso di ritenerla giusta e indiscutibile, perché “Spetta non soltanto ai giureconsulti ma agli uomini tutti affermare in coscienza se non ritengano che lo spirito della legge in quell’occasione sia stato alterato” (Voltaire). E pericolosamente, invece, molto pericolosamente, lo Stato democratico destituisce sé stesso quando qualcuno si lascia andare o è istigato ad assumere quell’autorità, trasformando il proprio ufficio istituzionale in un sacerdozio che non ha nulla a che fare con la legge uguale per tutti, questo “fatto” che obbliga tutti e che bisogna rispettare nella misura in cui (e solo in questa misura) obbliga tutti: e prende piuttosto a maneggiare, “anti” qualcosa o “pro” qualcos’altro, la giustizia, questo “valore” in nome del quale l’umanità si è macchiata dei delitti più atroci e le società umane si sono involute nei più terribili autoritarismi.