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di Elena Basso

La Repubblica, 20 agosto 2023

Dal 2019 nei centri di detenzione del Paese sono stati uccisi più di 600 persone: torturate a morte dai capi banda durante le lotte per il potere fra gang rivali. A volte ai familiari viene consegnato solo un braccio, altre volte un piede o un sacco con diversi parti del corpo. Non sanno se appartengano davvero al proprio familiare, è difficile stabilirlo, ma non possono fare altro che andare a casa e seppellirlo.

Da anni ormai lo Stato ecuadoriano ha perso il controllo delle proprie carceri, a comandare all’interno sono bande criminali legate al narcotraffico che hanno sempre più potere nel piccolo Paese latinoamericano. Dal 2019 dentro alle carceri dell’Ecuador sono stati uccisi più di 600 detenuti: torturati a morte dai capi banda o massacrati durante le lotte per il potere fra gang rivali. Gli scontri possono durare per giorni e i detenuti uccisi sono decine, a volte centinaia. I parenti dei detenuti comuni, cittadini che non sono legati al narcotraffico, vengono avvertiti da chi abita vicino al carcere quando c’è uno scontro. Le guardie carcerarie si rifiutano di entrare e non sanno dire ai familiari che accorrono davanti al carcere se i loro cari siano vivi.

Molto spesso lo scoprono guardando i video del massacro pubblicati online dai capi banda: sono tante le madri che hanno scoperto dell’uccisione del figlio vedendo il suo corpo squartato in un frammento di video. Domenica 20 agosto in Ecuador si terranno le elezioni presidenziali e lo scorso 9 agosto la notizia dell’uccisione del candidato Fernando Villavicencio, freddato da un gruppo di sicari, ha fatto il giro del mondo.

Ma l’ondata di violenza cresce nel Paese latinoamericano ormai da anni: i cartelli della droga hanno espanso incredibilmente il loro potere e l’Ecuador è diventato il Paese da cui parte più cocaina verso l’Europa, superando di gran lunga Colombia e Brasile, mentre le carceri del Paese negli ultimi anni sono diventati i principali “luoghi di lavoro” dei narcotrafficanti.

Nelle prigioni cercano nuovi membri (o li obbligano a farne parte), pianificano omicidi all’esterno, combattono le gang rivali e, soprattutto, dimostrano la totale inefficienza dello Stato nel combatterli. “Quello che accade nelle carceri è uno dei fenomeni più preoccupanti - sostiene Madelein Penman, ricercatrice di Amnesty International in Ecuador - E non danneggia solamente i detenuti, ma anche migliaia di familiari che vivono sapendo che il loro caro può essere ucciso da un momento all’altro”.

Jaime Yépez, detenuto schizofrenico, è stato ucciso il 23 febbraio del 2021 durante uno scontro fra gang. Era detenuto alla Penitenciaría del Litoral, il carcere più pericoloso di tutto il Paese. “Quel giorno sono morti 79 prigionieri. Nonostante fosse mio figlio, non mi hanno avvisata della sua morte fino all’8 di marzo, anche se chiedevo tutti i giorni alle guardie carcerarie se fosse vivo”, sostiene la madre di Jaime, Mercedes Vallejo.

Lenin Riofrio invece aveva 22 anni e si trovava nella stessa prigione per aver rubato un cellulare, quando è stato massacrato durante uno scontro avvenuto il 28 settembre del 2021. “Sarebbe uscito di prigione il mese dopo - denuncia sua madre Mayra Rosado - Io cercavo il suo nome ovunque: nella lista dei vivi non c’era, nemmeno in quella dei feriti o dei morti. Nessuno mi aiutava a trovarlo. Sono riuscita a scoprire solo giorni dopo che il corpo di mio figlio si trovava all’obitorio”.

Dal momento in cui un detenuto entra in carcere, arrestato magari per il furto di una borsa o per aver partecipato a una rissa, finisce nelle mani delle bande criminali legate al narcotraffico. Per avere un posto letto i familiari devono pagare subito 600 dollari, 25 settimanali per poter ricevere chiamate e altre decine di dollari per il cibo o qualsiasi genere di prima necessità. Così le famiglie devono pagare alle gang una media di 100 dollari a settimana, in un Paese in cui lo stipendio medio non arriva a 300 dollari. Chi non paga viene torturato con qualsiasi sevizia e con la corrente elettrica e, la maggior parte delle volte, giustiziato.

Il 30 aprile del 2022 i familiari dei detenuti uccisi hanno formato il Comité de Familiares por Justicia en Cárceles e lo scorso aprile hanno fatto causa allo Stato ecuadoriano. Oggi a farne parte sono 36 persone, soprattutto madri. “Quando accompagniamo i familiari dei detenuti davanti al carcere per sapere se i prigionieri sono vivi o morti, le guardie carcerarie ci attaccano fisicamente o con l’uso di gas lacrimogeni”, testimonia Billy Navarrete, uno dei più conosciuti attivisti del Paese che forma parte del Comitato permanente per la difesa dei diritti umani.

La portavoce dell’associazione dei familiari dei detenuti uccisi è Ana Morales, 41 anni, che vive nella città costiera di Guayaquil. Suo figlio Miguel López, è stato arrestato a soli 21 anni. Era appena cominciata l’epidemia da Covid-19, Ana era stata licenziata e lui, appena diplomato, aspettava la sua prima figlia.

“Non avevamo i soldi per mangiare”, ricorda oggi la donna. Il 28 settembre del 2021 un’amica di Ana che lavorava di fronte al carcere l’ha avvisata che si sentivano dei colpi di mitraglietta e urla provenienti dalla prigione. Ana si è precipitata davanti al carcere e, con altri familiari, ha chiesto alle guardie carcerarie di entrare per fermare il massacro.

“Ci ridevano in faccia - dichiara - E ci dicevano di lasciare che si ammazzassero fra di loro”. Ore dopo sui social è comparso un video caricato da uno dei capi delle gang che comandavano in quel carcere, i familiari hanno iniziato a guardare a turno il cellulare col video. Mentre passava di mano in mano, sono state molte le madri che sono cadute a terra disperate: avevano riconosciuto, fra quei corpi massacrati ed esibiti sui social, il cadavere del proprio figlio. “I nostri figli erano esseri umani - dice Ana commossa - anche se non sono stati trattati come tali. Io non sapevo che fare con tutto quel dolore, non si dovrebbe mai perdere un figlio, soprattutto così. Oggi chiedo giustizia e lotto perché la situazione in carcere cambi e perché nessun’altra madre debba vivere quello che ho passato io”.