sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Mario Panizza

L’Osservatore Romano, 8 settembre 2023

L’impianto architettonico dove il detenuto dovrà scontare la pena non deve essere visto come un luogo di reclusione, ma deve rappresentare l’occasione per riabilitare e offrire le maggiori possibilità per il futuro reinserimento sociale. La grave situazione delle carceri italiane arriva in cronaca tutte le volte che accadono fatti clamorosi, come, tre anni fa, le rivolte scoppiate in molti istituti penitenziari, nel periodo di maggiore intensità della pandemia da Covid-19.

Attualmente siamo di fronte a un fenomeno ugualmente drammatico e, per certi aspetti, ancora più preoccupante: il diffondersi dei suicidi tra i detenuti e, in alcuni casi, anche tra gli agenti di custodia. Le cronache rendono un quadro veramente allarmante. Archiviati gli eventi più drammatici, l’interesse sulla situazione carceraria tenderà però progressivamente a spegnersi e i buoni proponimenti, volti a rinnovare il sistema con provvedimenti “umanizzanti” e a impegnare risorse per risanare lo stato generale della situazione edilizia, scivolerà, come accade ciclicamente, nel dimenticatoio.

Eppure l’attuale condizione è ben oltre i livelli della tollerabilità; sembra impossibile infatti poter trascurare la gravità di un fenomeno che coinvolge l’intero sistema: strutture e personale. Nell’affrontare il problema delle carenze edilizie emergono limiti e difficoltà anche di comprensione, di individuazione delle priorità. Può capitare infatti di non cogliere la reale entità del problema. Per i progettisti, ad esempio, è facile che l’attenzione converga istintivamente verso la qualità architettonica, ponendo come prioritaria la ricchezza e il valore della soluzione formale e distributiva dell’edificio.

Ciò è ovviamente importante e riguarda il tema centrale del modo in cui predisporre lo spazio fisico dove il detenuto dovrà scontare la pena: l’edificio non deve essere visto come un luogo di reclusione, ma deve rappresentare l’occasione per riabilitare e offrire le maggiori possibilità per il futuro reinserimento sociale ed è questo, senza alcun dubbio, il principio che deve ispirare l’impianto architettonico destinato alla detenzione.

Solo attraverso il mantenimento del rapporto con il lavoro e con la propria famiglia è possibile che le persone, che hanno commesso un reato, non si “perdano” definitivamente. Sappiamo che, senza un’attenta e accorta attività rieducativa, il detenuto tornerà a delinquere. La recidività è molto alta: fino al go cento. Molti sono gli studi e gli esempi che sperimentano il rapporto tra la psicologia dell’individuo, estesa al comportamento nel gruppo, e l’ambiente regiden7iale del recluso: l’organizzazione spaziale attraverso unità circoscritte, raccolte intorno ad ambienti comuni dove poter lavorare e studiare; la dotazione dei servizi per la ginnastica; la scelta appropriata dell’arredo e dei colori; eccetera. chiaro che la qualità dell’architettura è in grado di favorire comportamenti virtuosi, di recupero.

La situazione attuale si colloca tuttavia in una dimensione in cui si è ben lontani dal potersi dedicare esclusivamente ai temi della qualità e del rapporto rasserenato tra il detenuto e la società. Siamo di fronte, e con evidenza, a un problema soprattutto di quantità, di strutture carenti, se non addirittura assenti. In molte carceri mancano le dotazioni elementari per assicurare al singolo individuo le condizioni per una sopravvivenza dignitosa. Solo quando è garantita la disponibilità di uno spazio sufficiente e dei servizi primari si può pensare di avviare un processo reale di reinserimento.

L’affollamento in tutte le carceri italiane, l’inadeguatezza dei servizi igienici, la scarsezza del personale che, soprattutto nel periodo estivo, quando, ulteriormente ridotto, limita l’uso di tutti gli spazi disponibili, stanno provocando la grave situazione di insostenibilità, di reale pericolo fisico, diffuso sia tra gli uomini che tra le donne. Non pochi valutano la condizione delle carceri italiane talmente compromessa e ingestibile da considerarla irrecuperabile, al punto da dover procedere a una sostituzione quasi integrale del patrimonio esistente. Personalmente ritengo che una soluzione così drastica sia da respingere per molti motivi, soprattutto di ordine pratico e di urgenza. È necessario disporre, quanto prima, di risorse concrete e realistiche, che assicurino, attraverso interventi aggiuntivi, una condizione di vivibilità individuale accettabile. A ciò si può giungere solo senza disperdere l’esistente e programmando un accorto e graduale processo di integrazione di quanto si dispone.

Attraverso opportuni progetti di ristrutturazione, buona parte degli impianti più antichi, e apparentemente insanabili, può essere adeguata alle norme e alle dotazioni necessarie. Questo favorirebbe inoltre la conservazione di un patrimonio storico che, altrimenti, nel tempo andrebbe inevitabilmente in rovina. Dismesso, senza un riuso immediato, diventerebbe molto rapidamente fatiscente. L’ipotesi che viene dal ministero di Grazia e Giustizia di recuperare, anche utilizzando i fondi del Pnrr, le caserme non più in uso, al fine di fornire, in tempi rapidi, ambienti da aggiungere alla dotazione attuale potrebbe apparire, almeno sul piano teorico, positiva.

Questa proposta deve però dimostrare concretezza e realizzabilità, corrispondendo ad almeno due condizioni pratiche ineludibili: la disponibilità di personale, adeguato per numero e preparazione a sanare le attuali carenze e a soddisfare le esigenze collegate ai futuri interventi; il censimento delle caserme realmente disponibili, escludendo quelle, non poche, già riutilizzate o in procinto di esserlo, come la Guido Reni a Roma, e quelle, ugualmente numerose, che sono state trasferite dallo Stato agli Enti locali.

Il problema della carenza dell’edilizia carceraria è talmente grave che, attualmente, non può rischiare di essere contaminato da proiezioni azzardate che prefigurino cambiamenti radicali dello status del detenuto o ipotizzino disponibilità teoriche non verificate sul territorio. Per le carceri, ancora più che per le altre strutture di servizio urbano, è necessario che il progetto di architettura corrisponda alle esigenze primarie della società e sappia calibrare le soluzioni in base ai tempi e alle urgenze. L’obiettivo resta il recupero sociale del detenuto, ma a ciò va anteposto il rispetto per la condizione dell’individuo durante la reclusione. Solo così è possibile procedere verso una concreta reintegrazione, offrendo condizioni di benessere fisico e mentale al detenuto. Ricordiamoci che Dostoevskij, e ancora prima Voltaire, hanno sostenuto che il valore e l’emancipazione di una società si misurano proprio sullo stato del suo sistema carcerario.