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di Stefania Parmeggiani

La Repubblica, 2 settembre 2022

Un detenuto folle, una ragazza con una strana malattia, un artista misantropo. Nel suo libro di racconti lo scrittore si immerge in tre forme di isolamento. E qui ci parla anche delle sue paure.

Castiglione della Pescaia (Grosseto). Case di pietra e mattoni immerse nella pineta di Roccamare, chilometri di verde a pochi passi dal mare. Il silenzio, l’odore della salsedine e i fantasmi di alcuni tra i nostri più grandi scrittori.

Italo Calvino ambientò qui alcune riflessioni del suo alter ego Palomar e nella sua ultima estate, mentre scriveva quelle Lezioni americane che avrebbe dovuto leggere ad Harvard, passeggiava tra questi viali ombrosi e sulla deserta spiaggia tirrenica a braccetto con Pietro Citati. Fruttero, insieme a Lucentini, vi ambientò il suo Enigma in luogo di mare, tratteggiando tutti i tipi umani che vi avrebbero abitato, eccetto uno di recente arrivo: il russo miliardario che all’eleganza discreta di villette invisibili dalla boscaglia preferisce il lusso ostentato di giardini scolpiti e cubature fuori misura. 

Oggi a farci strada in un mondo isolato, una nicchia lontana dal turismo festoso dell’Argentario, è Edoardo Albinati, scrittore Premio Strega con La scuola cattolica e insegnante nel carcere romano di Rebibbia. Inforca una vecchia bicicletta e dalla villetta costruita dal padre - figura enigmatica a cui dedicò il memoir Vita e morte di un ingegnere - pedala su una stradina sterrata fino al mare: “Faccio il bagno la mattina presto, quando non c’è nessuno”. È il luogo perfetto per parlare di solitudine, tema sfuggente e mutevole al centro dei tre racconti che Albinati ha raccolto nel suo nuovo libro: Uscire dal mondo (Rizzoli). Un detenuto folle, una ragazza afflitta da una misteriosa malattia, un artista misantropo sono i protagonisti che si muovono tra ossessioni che riguardano tutti: la paura del giudizio altrui, il desiderio di essere compresi, la tentazione della fuga. Albinati lo presenterà il 4 settembre al Festival della Mente di Sarzana.

Da dove nasce questo titolo?

“Leggendo un libro di Hannah Arendt mi sono imbattuto in un suo pensiero, e cioè che, anche volendolo, è sul serio impossibile uscire dal mondo. Mi è sembrato rispecchiare il senso profondo delle mie novelle, il loro tema comune, cioè l’isolamento, che può essere coatto e quindi sofferto, oppure un desiderio legittimo, quello di essere finalmente lasciati in pace”.

I tre racconti sono nati assieme?

“No, in tempi diversi. Quello che chiude la raccolta, Oubliette, dal nome di quelle prigioni sotterranee del Medioevo a cui si accedeva solo tramite una botola posta sul soffitto, l’ho scritto e riscritto molte volte, risale a un’era quasi geologica”.

È un flusso di pensieri ininterrotti, un’unica frase senza neanche un punto...

“Volevo un’unica colata, un getto di parole che prendesse insieme il protagonista, il suo cane spelacchiato, la vecchia zia attrice... Penso che la pretesa della riconoscibilità autoriale vada superata. Insomma, io sono il contrario di Carver, che è sempre il magnifico Carver, io invece adopero per ogni storia uno stile diverso”.

Da dove nasce questo compositore che si allontana da tutti?

“Mi sono servito come modello di una persona realmente esistita, un caro amico, ma poi il personaggio ha preso vita propria ed è diventato altro. Spesso alla base delle mie storie ci sono personaggi reali che poi spregiudicatamente trattati diventano letterari. In questo non ho scrupoli”.

Che idea ha della letteratura?

“È l’unico luogo dove la proprietà privata è sul serio abolita. Quando scrissi 19, diversi lettori mi dissero di aver amato una certa pagina, dove si dice che il vero mistero non è perché siamo stati cacciati dal paradiso terrestre, ma perché non riusciamo a farvi ritorno. Be’, in effetti è un pensiero bellissimo, è infatti l’ha scritto Kafka! Non è roba mia. L’ho rubata. La mia idea di scrittura è piuttosto quella di un redattore che trova materiali vitali e poi li assembla, li fa parlare, e inventa perché ci sono buchi da riempire, una trama da costruire. Anche la nostra memoria in fondo funziona così”.

La professoressa del primo racconto, Ragazzo A, è una sua collega del carcere di Rebibbia?

“Quando l’ho scritto forse pensavo a me stesso. Però io in carcere non ho mai pianto... anche se ne ho avuto voglia. Dunque, quella prof sono io oppure è una mia collega? O è solo un personaggio di finzione?”.

Com’è cambiata la sua percezione del carcere dai tempi di Maggio selvaggio, diario del suo primo anno di docenza a Rebibbia, a oggi?

“È triste dirlo, ma dopo ventotto anni di lavoro lì dentro la mia percezione è rimasta la stessa, e dunque è peggiorata perché da allora si è perso quel po’ di speranza che le cose potessero migliorare”.

Il secondo racconto, invece, è una storia corale. Qual è stata la scintilla?

“L’idea della malattia inspiegabile. Colpisce la protagonista come fosse un castigo divino, e da qui per associazione è nata la figura del prete. E poi il suo alter ego laico, un farmacista per cui ho preso a modello il monsieur Homais di Madame Bovary”.

Non possiamo anticiparla, ma possiamo soffermarci sulla predica del sacerdote, un ragionamento sul confine sottile tra la vita e la morte...

“Sono affascinato dall’idea della resurrezione. Esiste una possibilità che non si muoia veramente, e del resto, anche se così non fosse, se morirò io qualcun altro vivrà. Si viene sostituiti, la vitalità non ha fine”.

Che cosa l’affascina della religione cattolica oltre alla resurrezione?

“Sembrerà strano, ma è la razionalità. Credo che la logica con cui ho imparato a ragionare si debba ai miei anni alla scuola cattolica. E forse i preti sono tra gli ultimi a provare a fare dei ragionamenti”.

I ragionamenti sono scomparsi dalla scena pubblica?

“Sono anni che non sento fare un ragionamento articolato, che seppur non condivido sia in grado di farmi riflettere. La politica attuale ha sostituito qualsiasi pensiero con gli slogan e le promesse, ma adesso sinceramente preferirei non parlare di politica. Siamo in campagna elettorale, non mi va di entrare nella canea”.

Torniamo alla solitudine. La cerca o la rifugge?

“Sono una persona poco socievole, però terrorizzata dalla solitudine. Non amo stare da solo e soffro con gli altri, però ho imparato a starci. Mi sono sporto fuori da me stesso con un enorme forzo e oggi oscillo continuamente tra i due poli. Non ho timore di dichiararmi totalmente incoerente. Del resto, se ho una tipicità come persona, è proprio quella di attraversare continuamente una soglia, faccio la spola tra mondi opposti: da un lato il carcere, l’estrema povertà, i rifugiati, dall’altro la vita borghese e le aspirazioni intellettuali. Il concreto e l’astratto”.

Per scrivere ha bisogno di isolarsi? 

“Ma no! Ricordo Giambattista Vico che scrisse la Scienza Nuova in un tugurio con i bambini attaccati alle gambe. Non ho bisogno di nulla se non della mia energia, quando c’è attorno a me può infuriare anche la tempesta”. 

E come scrive? D’impulso, rileggendosi subito, tornando sulle frasi?

“Scrivo a mano e vado come una freccia perché non ho distrazioni e non ho la tentazione di fermarmi e correggere. La scrittura a mano ha una sua fisicità, come quando corri o nuoti, dopo un po’ rompi il fiato”.

Nel libro scrive i trans, plurale maschile. Non è politicamente scorretto?

“Forse, ma in galera si dice così. Avrei dovuto scrivere “le persone transessuali”? Sono sensibile ai temi di genere nella realtà sociale, ma trovo ipocrita risolverli in chiave del linguaggio, come se fosse il linguaggio a comandare la realtà e non la realtà il linguaggio. La lingua non si impone per legge”.

Che cosa pensa dello schwa? 

“Per gli usi burocratici va benissimo. Però se ho qualcosa di scritto devo anche essere in grado di leggerlo a voce alta. Viene prima la voce e poi la scrittura. Il linguaggio naturale e quello letterario potranno pure infastidire, ma pazienza, non sono mica fatti per coccolare. Se no andrebbe censurato il 90 per cento della letteratura”.

Cosa che in parte sta accadendo...

“La cancel culture è espressione di movimenti neopuritani, mentre la letteratura è il regno del desiderio e della libertà e dunque anche del rischio. Che qualcuno possa offendersi leggendo un libro è un segno di vitalità. Immaginiamo una letteratura del tutto inoffensiva: che orrore! Gli unici problemi per un artista sono di natura artistica. Essere un pessimo artista, un pessimo scrittore, questo sì che è offensivo”. 

Lo scrittore è apolitico?

“Non in quanto cittadino, ma in quanto scrittore è impolitico. Io quando scrivo non voglio essere il paladino di niente. Perché se vuoi fare il paladino, fai un’azione politica”. 

È sicuro? In Cronistoria di un pensiero infame ha parlato di immigrazione. E non è stato l’unico caso...

“Certo, ma l’ho fatto solo per chiarire un po’ di cose, diciamo, per un puntiglio illuminista. Adesso, per esempio, qualcuno invoca il blocco navale contro l’immigrazione, ma sapete cosa significa, nella pratica? Che se una barca prova ad aggirare il blocco va speronata e affondata. In mare funziona così, in mare non ci sono strade segnate. Dunque, questa mia sarebbe una posizione ideologica? Non credo”.