sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Giulio Costa

La Stampa, 15 aprile 2023

“Volere è potere” è la più grossa bugia che l’uomo abbia creato per gestire l’angoscia. Abbiamo via via trasformato la narrazione della fragilità in un cancro da rimuovere chirurgicamente e così facendo abbiamo educato i nostri figli al rifiuto della debolezza.

“Date parole al dolore. Il dolore che non parla bisbiglia al cuore oppresso e gli ordina di spezzarsi”. Certo Shakespeare non immaginava come queste parole, che contraddistinguono il IV atto del Macbeth, sarebbero state quelle soffocate da una generazione di adolescenti fragile e spezzata. Una generazione ferita che teme e si vergogna di dare voce alle proprie legittime insicurezze e vulnerabilità non per sua natura, come invece sostiene ancora una narrazione vetero paternalista, ma perché schiacciata da una società performativa, secondo cui la propria vita acquista significato solo in funzione di risultati, obiettivi raggiunti e successi. A partire dal Secondo Dopoguerra abbiamo via via strangolato ogni discorso sulla fragilità, sul dolore e sul senso del limite. Negli ultimi anni le frasi motivazionali condivise sui social - perlopiù dagli adulti - un utilizzo spesso improprio della parola resilienza, si sono sempre più centrate sulla comunicazione della negazione del limite, che “il solo limite che esiste è quello che scegli tu”, della filosofia del do more ad ogni costo. “Volere è potere” è la più grossa bugia che l’uomo abbia creato per gestire l’angoscia. Abbiamo via via trasformato la narrazione della fragilità in un cancro da rimuovere chirurgicamente e così facendo abbiamo educato i nostri figli al rifiuto della debolezza. Da mesi ormai leggiamo di studenti universitari che hanno tentato il suicidio per non riuscire a gestire la troppa pressione, o servizi di neuropsichiatria che in tutta Italia, come nel resto dei Paesi dell’Europa Occidentale (e come in Nord America, Medio Oriente e Nord Africa) vedono un aumento del 30% dei casi di disturbi alimentari e autolesività tra le ragazze e di ritiro sociale tra i ragazzi. È vero, la pandemia ha slatentizzato un malessere che era già in aumento e l’ha potenziato, tuttavia continuare a dire che è tutta colpa del Covid, dei videogiochi o dei social è l’ennesimo cliché che deresponsabilizza la comunità educante.

Una comunità fatta da genitori, insegnanti, educatori, allenatori sportivi, istituzioni all’interno della quale i nostri figli cercano la salvezza sperando di identificarsi educatori in grado di riconoscerli e valorizzarli per le loro umane vulnerabilità, ma restano intrappolati in modelli performativi intolleranti ad accettare l’imperfezione. Come possiamo aiutarli? Educandoli al rischio, altrimenti si metteranno loro in maniera pericolosa in situazioni gravemente rischiose. L’incontro con l’altro è per eccellenza un territorio rischioso, ma che ci fa crescere nella fiducia, nella conflittualità, nella solidarietà, così come nel fallimento e nel rapporto con l’intimità. Negli ultimi anni il corpo dei ragazzi si è sempre più identificato in un corpo performativo ed estetico e sempre meno in un corpo erotico perché timorosi di essere rifiutati, di non piacere, e di considerarsi falliti e difettosi. Parafrasando Susan Sontag, possiamo dire che ciascuno di noi nasce con una doppia cittadinanza: quella da usare all’interno dei confini della sicurezza e quella da usare nei territori della fragilità e della insicurezza. Riconosciamoci cittadini dell’”isola dei giocattoli difettosi”, come dicono i giovani protagonisti di Noi siamo infinito, film del 2012 con Emma Watson, e saremo per i nostri ragazzi un nuovo specchio entro cui riflettersi senza vergogna.