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di Francesco Petrelli*

L’Unità, 7 settembre 2023

Il politico e il legislatore ne sono fortemente persuasi: è il pm il detentore della verità, è che lui che sa estirpare il male e sanare le ingiustizie. Non c’è riforma senza la consapevolezza e denuncia di questa anomalia. Il concetto di “egemonia” descrive bene la situazione venutasi a creare nel nostro Paese negli ultimi trenta anni, in quanto, al di fuori di ogni riforma ordinamentale e costituzionale, la figura del pubblico ministero ha assunto una posizione centrale, facendo sì che i titolari dell’azione penale assumessero un effettivo controllo della scena processuale, mediatica e politica.

Si deve in proposito parlare di egemonia e non di dominio, in quanto quel potere vasto ed incontrastato non è imposto con la forza nei confronti di coloro che le sono soggetti (i media, i giudici, la politica), e tanto meno avvertito come una qualche imposizione dall’intera società. Accade così che il parere espresso da un pubblico ministero non sia percepito come una opinione di parte, ma venga accolto come un’affermazione di inattaccabile verità destinata a prevalere su ogni altra voce.

Si tratta di una situazione tanto significativa ed estesa da essere colta anche da qualificate voci interne alla magistratura e che, proprio per tale ragione, appare suscettibile di produrre alterazioni tanto più gravi e profonde in quanto le stesse non si esauriscono nell’ambito delle dinamiche processuali, ma finiscono con incidere nel tessuto istituzionale e nella carne viva della nostra democrazia. Una egemonia, infatti, proprio in quanto tale, si risolve in una convinta condivisione valoriale ed è tanto più efficace e radicata in quanto non produce una pura e semplice soggezione, ma si risolve in quel riconoscimento spontaneo da parte di tutti gli altri soggetti coinvolti nelle dinamiche decisive per lo sviluppo del processo penale (dal legislatore al cronista giudiziario, al singolo elettore), di quella effettiva superiorità e capacità del pubblico ministero e della straordinaria efficacia della sua azione.

Non è infatti solo il pubblico ministero ad essere convinto di tale condizione di superiorità, ma ne è convinto lo stesso giudice e ne sono profondamente persuasi il politico ed il legislatore: è il pubblico ministero ad essere detentore della verità, è lui a saper distinguere il lecito dall’illecito, a saperne indicare i responsabili senza bisogno di alcun giudizio, è lui che sa distinguere le leggi buone da quelle cattive, è solo il pubblico ministero ad avere il potere e la capacità di estirpare il male. È infine il pubblico ministero, e non certo la politica, ad essere capace di sanare le ingiustizie della società.

Si tratta di una superiorità che si risolve di fatto in una disinvolta agibilità politica, in una presa immediata sull’opinione pubblica ed in una capacità di condizionamento degli iter legislativi: è sufficiente che alcuni pubblici ministeri o ex pubblici ministeri, all’esterno o all’interno del Parlamento, si dichiarino contrari ad un DDL per ottenere un ampio consenso da parte dei media e per determinarne così la neutralizzazione. Ed è allo stesso modo sufficiente che alcuni rappresentanti qualificati di quell’Ufficio esprimano i loro desiderata perché la politica se ne faccia immediatamente carico.

Si tratta di una condizione di privilegio che proprio in quanto non si risolve affatto in un atto di forza o nel puro “esercizio di un potere”, non può essere contrastata in alcun modo dagli altri poteri che restano inevitabilmente collocati in una perdurante posizione di subalternità. Occorre pertanto prendere atto con realismo della situazione di sbilanciamento culturale, istituzionale e politico che caratterizza la posizione della magistratura inquirente nel nostro Paese e del pericolo che essa costituisce per la complessiva tenuta della nostra democrazia. Perché la subalternità della politica è un pericolo per ogni democrazia.

È per questa ragione che ogni iniziativa riformatrice deve essere accompagnata da una più vasta campagna di denuncia di questa perseverante anomalia affinché raggiunga i più ampi settori della società, nella convinzione che solo una riforma radicale della giustizia potrà ricondurre il sistema penale ai suoi necessari equilibri all’interno ed all’esterno del processo. Una riforma che non solo è indispensabile per restituire la necessaria centralità alla figura del giudice, ma che costituisce altresì la premessa affinché finalmente la politica si sottragga a quella egemonia ed a quella insostenibile subalternità nella quale si è irresponsabilmente lasciata condurre. Se non si parte da qui, da questa presa di coscienza, per la giustizia, per la magistratura e per l’intero Paese non ci sarà alcuna speranza di rinnovamento.

*Direttore della Rivista UCPI “Diritto di Difesa”