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La Repubblica, 15 agosto 2023

Human Rights Watch: dopo quell’eccidio è nata una campagna di arresti e torture che ha cancellato ogni spazio di critica nel Paese africano. Era il 14 agosto 2013 quando la polizia, al Cairo, usò la forza per disperdere centinaia di manifestanti che chiedevano la reintegrazione dell’ex presidente Mohamed Morsy. L’Egitto precipitò in una morsa di violenza e di abusi dei diritti che continua ancora oggi e quella giornata viene ricordata come il massacro di Rab’a. I fatti avvenuti quel 14 agosto di dieci anni fa sono considerati da molte organizzazioni per i diritti umani come crimini contro l’umanità, ma le autorità non hanno voluto, fino a oggi, fare chiarezza su quanto accaduto.

I fatti di quei giorni. L’esercito arrestò il presidente Mohamed Morsy il 3 luglio 2013 in quella fase storica che l’Occidente ha battezzato “Primavera Araba”. Morsy è morto in carcere nel 2019, in condizioni pietose. Dopo il colpo di stato, i sostenitori del presidente deposto organizzarono proteste in tutto l’Egitto, in particolare in due piazze del Cairo: Rab’a e al-Nahda. Il 14 agosto - documenta Human Rights Watch (HRW) - le forze di sicurezza per disperdere i cortei spararono contro le persone che manifestavano pacificamente e a Rab’a fecero almeno 817 vittime. Queste uccisioni - sottolinea l’organizzazione - costituiscono quasi sicuramente crimini contro l’umanità e avrebbero richiesto un’indagine internazionale, che però non c’è mai stata. Anche i tribunali nazionali di altri Paesi avrebbero dovuto perseguire gli autori del massacro in base al principio della giurisdizione universale, ovvero quell’impianto di norme che consente di fare giustizia ai sensi del diritto internazionale, indipendentemente dal luogo in cui i crimini sono stati commessi.

Il diniego della giustizia. Nonostante le prove schiaccianti raccolte da Human Rights Watch sull’abuso della forza a Rab’a e le richieste delle Nazioni Unite affinché si avviasse un’indagine indipendente, le autorità egiziane non hanno indagato né perseguito nessuno degli autori dell’eccidio. Ancora oggi centinaia di manifestanti che parteciparono al sit-in sono incarcerati o già condannati con processi di massa iniqui. Qualcuno è stato condannato a morte, qualcun altro è in esilio. “Dal massacro di Rab’a è nata una campagna di arresti, processi fittizi e torture che ha tolto ogni spazio per il dialogo critico e ha spinto molti riformisti fuori dal paese”, dice Adam Coogle, vicepresidente per il Medio Oriente e il Nord Africa di HRW. “Affrontare ciò che è accaduto a Rab’a non riguarda solo le vittime di Rab’a e le loro famiglie, ma è un passaggio cruciale per la prospettiva dei diritti umani e della democrazia in Egitto”.

I tentativi di fare chiarezza. In un rapporto del 6 marzo 2014, il Consiglio nazionale egiziano per i diritti umani scrive che alcuni manifestanti a Rab’a erano armati e avevano opposto resistenza alle forze di sicurezza. Tuttavia il dossier sottolinea anche che ci fu una “risposta sproporzionata” e “un uso eccessivo della forza da parte della polizia”. Il 26 luglio 2018 Abdel Fattah al-Sisi ha approvato la legge sul “trattamento degli alti comandanti delle forze armate”, in virtù della quale il presidente può concedere ai comandanti militari “l’immunità diplomatica” quando viaggiano all’estero, proprio con l’obiettivo di proteggerli dalle responsabilità. Oltre a non volere indagare sul coinvolgimento delle forze di sicurezza nell’omicidio di massa di Rab’a, le autorità non hanno aderito neanche all’articolo 241 della Costituzione, che richiedeva loro di approvare, nel 2016, una legge che “assicurasse la verità, la responsabilità e il risarcimento delle vittime, in conformità con gli standard internazionali”.

Gli abusi. Dall’agosto 2013 le forze di sicurezza egiziane hanno ripetutamente commesso violazioni dei diritti umani: arresti arbitrari, sparizioni forzate e torture di attivisti politici veri o presunti, con il pretesto di combattere il terrorismo. Per sfuggire ai soprusi di stato, molti dissidenti sono stati costretti all’esilio. Altre volte, per evitare che scappassero e si sottraessero ai processi, il governo ha usato la tattica di non rinnovare i documenti di identità. Si è intensificato il ricorso alla pena di morte, in molti casi a seguito di procedimenti iniqui e processi di massa. Con il presidente Abdel Fattah al-Sisi l’Egitto si è classificato tra i primi tre paesi a livello mondiale per numero di esecuzioni e condanne a morte nel 2020, scrive Amnesty International.

Le esecuzioni extragiudiziali. Negli ultimi anni l’Agenzia per la sicurezza nazionale ha ucciso dozzine di presunti terroristi in tutto il paese in quelle che le autorità locali chiamano “sparatorie” ma che molto probabilmente - denunciano le organizzazioni per i diritti umani - sono esecuzioni extragiudiziali. La repressione governativa riguarda i diritti di vari gruppi sociali, compresi i giornalisti, che sono stati perseguiti esclusivamente per il loro lavoro, le persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender, che sono prese di mira per il loro orientamento sessuale e per l’identità di genere. Le autorità hanno anche utilizzato vaghe accuse di “moralità” per arrestare influencer e testimoni di violenze sessuali.

L’impunità. Nonostante gli abusi, le Nazioni Unite non hanno ancora istituito un meccanismo di monitoraggio in Egitto. Anche Stati Uniti, Canada, Regno Unito e Unione Europea, nonostante gli appelli del Parlamento europeo, non sono riusciti a imporre sanzioni mirate contro i funzionari egiziani coinvolti nei reati. Dopo il massacro di Rab’a l’Unione Europea ha deciso di interrompere le esportazioni al Cairo di armi e merci che potrebbero essere utilizzate per la repressione interna. Tuttavia più di una dozzina di paesi tra cui Bulgaria, Cipro, Belgio, Repubblica Ceca, Francia, Ungheria, Italia, Romania e Spagna hanno violato questa decisione. Nel luglio 2013 l’Unione africana ha sospeso l’Egitto dopo il colpo di stato militare, ma ne ha ripristinato l’adesione nel 2014 nonostante la mancanza di progressi in materia di diritti.