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di Carlo Bonini

La Repubblica, 26 gennaio 2023

Nel settimo anniversario della morte del giovane, Tajani afferma che ora l’Egitto vuole collaborare: un’affermazione che lascia interdetti. Il settimo anniversario dell’omicidio di Giulio Regeni non merita lo spettacolo di questi giorni e di queste ore. Perché c’è un solo modo peggiore di consegnare all’oblio un delitto che ha mutilato l’esistenza di una famiglia e segnato la coscienza di un Paese ed è quello di rinunciare a rendergli giustizia fingendo di volerlo fare. Per giunta, annegando l’intento in una retorica tanto vuota quanto ipocrita e stantia. Peggio ancora, spesa per riaccreditare fuori tempo massimo un uomo che, da sette anni, la verità e la giustizia che l’Italia va cercando la tiene in ostaggio e se ne fa beffe: il presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi.

Soltanto in un Paese dove la politica ha smarrito il senso della funzione che le è affidata, il valore della coerenza dei comportamenti e quello delle parole, è infatti concepibile ascoltare un intervento lunare come quello pronunciato ieri pomeriggio nel question time alla Camera dal ministro degli Esteri Antonio Tajani. Uomo per giunta preparato, cosciente del valore delle parole e con una lunga esperienza politica internazionale alle spalle. “Voglio, proprio oggi, confermare la mia vicinanza e quella del governo alla famiglia di Giulio Regeni che ha il diritto che si faccia luce su ciò che è accaduto e che i responsabili dell’orribile omicidio vengano processati e puniti - ha detto il ministro - Continueremo per questo a esigere la verità sulla barbara uccisione di Giulio Regeni e occorre non disperdere i risultati ottenuti dalla magistratura e dagli investigatori italiani sostenuti dalle pressioni a livello diplomatico che hanno permesso di concludere le indagini preliminari”. “Serve - ha aggiunto Tajani - una più fattiva collaborazione del Cairo a cominciare dalla notifica degli atti di citazione agli agenti su cui gravano evidenze probatorie. Occorre punire chi ha torturato e ucciso un giovane italiano impegnato a studiare in Egitto. Ho intravisto in questo senso una disponibilità diversa da parte egiziana rispetto agli scorsi anni. Il presidente egiziano Al Sisi mi ha assicurato che l’Egitto farà di tutto per eliminare gli ostacoli che rimangono e che rendono difficile il dialogo con l’Italia. Vediamo se alle parole seguiranno i fatti. Continueremo a monitorare”.

“Disponibilità diversa”, “assicurazioni”, “rimozione degli ostacoli”, “monitoraggio”. Tajani sa bene, e se non lo sa avrebbe dovuto esserne informato, che la cooperazione giudiziaria con l’Egitto non solo non ha fatto registrare alcuna apertura da tre anni a questa parte. Ma che ha mostrato in tempi recenti una magistratura egiziana e gli apparati di sicurezza di quel Paese in una veste se possibile ancor più ostruzionista. Sei mesi fa, per dire, con un documento ufficiale consegnato al nostro ministero della giustizia, le autorità del Cairo hanno dichiarato “il caso chiuso” e chi ne è imputato “innocente”. Tajani dovrebbe ricordare l’umiliazione cui Al-Sisi sottopose, da ultimo, un garrulo Giuseppe Conte pronto a impegnarsi come primo ministro, di fronte al Parlamento, a inesistenti “svolte” strappate grazie a uno “speciale rapporto” con il presidente egiziano, che di speciale non aveva un bel nulla. Così come non può sfuggire al ministro il nulla in termini politici e diplomatici ottenuto sull’omicidio Regeni sul piano dei rapporti bilaterali con il Cairo dai sei governi e i cinque presidente del Consiglio che si sono succeduti in questi sette anni, compreso un peso massimo come Mario Draghi. Tajani, semplicemente, dovrebbe sapere che le parole di Al-Sisi sul caso Regeni non hanno alcun valore.

Se dunque il ministro Tajani e il governo che rappresenta avessero davvero a cuore “la verità per Giulio” e avessero un briciolo di rispetto per l’intelligenza del nostro Paese (per non dire di quella della famiglia Regeni) dovrebbero essere i primi a parlare il linguaggio della verità. Quale che ne sia il prezzo. E spiegare, per esempio, per quale motivo il loquacissimo ministro di Giustizia Nordio, impegnato nella titanica operazione di rompere le reni ai pm italiani e al giustizialismo che li animerebbe, non abbia avuto ancora un briciolo di tempo per mettere più modestamente mano a una modifica delle norme del nostro codice di procedura penale che regolano le notifiche agli imputati in un processo. Mettendo così il nostro Paese nelle condizioni di aggirare l’ostruzionismo del regime egiziano che si sta facendo scudo delle garanzie riconosciute dal nostro ordinamento per impedire che si celebri il processo ai quattro ufficiali della National Security Agency egiziana imputati del sequestro e omicidio di Giulio. Non è difficile, in fondo. Servono solo un po’ di serietà e coraggio.