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di Michele Giorgio

Il Manifesto, 21 luglio 2023

Crisi economica e del grano. Petromonarchie stufe di sostenere senza condizioni il raìs, che allora guarda a Ue e Usa. Intervistato da Radio 24, ieri il vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani, insisteva ancora sul “ruolo determinante” che avrebbe avuto il governo Meloni nel persuadere il presidente egiziano Abdel Fattah El Sisi a concedere la grazia a Patrick Zaki. E l’ambasciatore egiziano a Roma, Bassam Rady, è stato pronto a descrivere la clemenza di El Sisi come un atto volto “a sostenere le relazioni italo-egiziane” le quali, ha spiegato, “si sono estese attraverso la storia che ha unito le sue due grandi civiltà”. Sarà, ma dietro la liberazione di Zaki e di altri prigionieri politici c’è l’intenzione del regime egiziano non tanto di compiacere Giorgia Meloni quanto di lanciare messaggi concilianti a tutta l’Unione europea e agli Usa - che hanno già applaudito alla “magnanimità” del raìs - in una fase in cui il Cairo ha bisogno di aiuti ingenti e urgenti per puntellare la sua economia vacillante e fare fronte al riacutizzarsi della crisi del grano. L’Egitto è il più grande importatore al mondo - 12 milioni di tonnellate l’anno - e circa l’80% di queste importazioni proviene dalla Russia e dall’Ucraina in guerra. Le scorte si stanno esaurendo ha annunciato mesi fa il ministro dell’approvvigionamento Ali Al-Mosselhi. Anche del grano El Sisi parlerà al vertice e forum economico Russia-Africa che si svolgerà a San Pietroburgo dal 26 al 29 luglio.

La liberazione di Patrick Zaki renderà più caloroso il benvenuto che le Nazioni unite e l’Italia riserveranno domenica a Roma al primo ministro egiziano, Mostafa Madbouly, atteso a una conferenza e alle riunioni della Fao, l’agenzia che si occupa di sviluppo agricolo. Il presidente egiziano ha bisogno di un incremento sostenuto della cooperazione bilaterale con l’Europa - è già in trattative con la Banca europea per gli investimenti (Bei) per finanziare lo sviluppo di un grande silo nel porto di Damietta - poichè le petromonarchie del Golfo, tradizionali sponsor dell’Egitto, sono stanche di intervenire a suo sostegno. Lo scorso novembre, il Qatar ha trasferito un altro miliardo di dollari alla Banca centrale dell’Egitto dopo i 3 del 2021. L’Arabia saudita ha depositato 5 miliardi di dollari nella banca nel maggio 2022. E gli Emirati hanno firmato una partnership di investimento da dieci miliardi di dollari con l’Egitto. A tutto però c’è un limite. “Con l’Egitto c’è un rapporto commerciale: fornire solo sovvenzioni e beneficenza non è più il caso per il Qatar”, ha detto a Bloomberg due mesi fa il ministro dell’economia qatariota Ali Al-Kuwari. A inizio anno il ministro delle Finanze saudita Mohammed Al Jadaan ha avvertito che il regno non fornirà più aiuti esteri “senza condizioni”.

Parole che hanno contribuito ad accrescere il pessimismo sulle possibilità di El Sisi di portare l’Egitto fuori dalla crisi economica e finanziaria più grave degli ultimi decenni. A giugno l’inflazione è stata del 36,8% e in meno di un anno la sterlina egiziana ha perso la metà del suo valore mentre decine di miliardi di dollari hanno lasciato il paese. Pesantemente indebitato, l’Egitto ha dovuto contrarre un nuovo prestito dal Fondo monetario internazionale e non servono a molti i circa due miliardi di dollari che il governo ha ottenuto vendendo aziende di proprietà statale. Le uniche notizie positive arrivano dal Canale di Suez - El Sisi per mania di grandezza lo aveva fatto raddoppiare qualche anno fa - che ha portato nelle casse dello Stato 8,6 miliardi di dollari tra tasse e altri costi di passaggio. Non basta in un paese dove gli interessi sul debito pubblico hanno raggiunto quota 42 miliardi di dollari. La magnanimità di El Sisi, perciò, è una richiesta di aiuto all’Europa e l’Occidente.